Serendipità: scoperte scientifiche (Pt.2)
Benvenuti al secondo appuntamento con il fantastico mondo della Serendipity. Volete un breve riassunto dell’episodio precedente come in ogni serie che si rispetti? Eccovi accontentati!
Ricapitolando un po’, la parola serendipità è stata coniata da Horace Walpole nel 11.754 EU (1754 d.C.) e trae origine dalla fiaba persiana I tre principi di Serendippo e significa “fare scoperte fortunate e inaspettate senza cercarle intenzionalmente”.
Il concetto di serendipity è abbastanza ricorrente anche in romanzi, film e serie TV. E’ infatti alla base di trame avvincenti in cui i protagonisti si innamorano e risolvono intrighi e misteri grazie a coincidenze fortuite.
Come abbiamo già visto, la serendipità ha giocato un ruolo essenziale anche in molte scoperte scientifiche rivoluzionarie.
Ma, a proposito di scoperte… siete pronti a conoscerne altre? Se sì, ecco un’altra bella carrellata di scoperte scientifiche avvenute grazie all’incastro perfetto tra talento degli scienziati e un pizzico di fortuna!
Il lisozima
Parliamo ora di un ricercatore che è stato fortunato non una ma ben due volte! Ma che cu… riosone che era!
In una giornata londinese particolarmente fredda e piovosa, il microbiologo inglese Alexander Fleming si beccò un bel raffreddore ma, giustamente, anziché andarsene a casa per rifugiarsi sotto le coperte al calduccio, decise di restare nel suo laboratorio.
Prelevò quindi un campione del suo stesso muco e lo mise su una capsula petri. Normale amministrazione insomma…
Qualche settimana dopo notò che si erano sviluppati microbi in tutto il recipiente, tranne in quelle zone dove c’era il suo muco. Questo perchè in numerose secrezioni quali lacrime, saliva, muco nasale, secrezioni spermatiche e vaginali e nel latte, è presente un enzima chiamato lisozima, dotato di attività battericida.
Insomma, tra uno starnuto e una soffiata di naso, Fleming aveva fatto una scoperta non indifferente! E questa è la prima botta di sedere. Veniamo alla seconda.
La Penicillina e la distrazione
La penicillina è un antibiotico che ha salvato milioni di vite in tutto il mondo tant’è che la sua scoperta è valsa addirittura un bel premio Nobel al caro Fleming ed è avvenuta anch’essa per caso.
Lo scienziato stava facendo merenda quando si dimenticò un pezzo di ananas accanto a delle piastre contenenti colonie di stafilococchi su cui stava lavorando. Al suo ritorno in laboratorio notò che una muffa proveniente dall’ananas andato a male aveva contaminato una coltura. E fin qui nulla di eccezionale, se non fosse per il fatto che questo Terminator di muffa era stato in grado di uccidere tutti i batteri circostanti.
Il ricercatore identificò la muffa come appartenente al genere Penicillium notatum e, attraverso ulteriori studi, notò che questa era in grado di agire come un killer di batteri grazie alla produzione di una sostanza che Fleming chiamò penicillina.
Il suo effetto anti batterico non era cosa da poco considerando la sua capacità di annientare una vasta gamma di batteri patogeni, preservando però le cellule umane.
Isolamento e purificazione della Penicillina
L’obiettivo successivo fu quello di isolare la penicillina in forma pura e produrla su larga scala per consentirne l’uso medico. Inizialmente non fu facile, ma Florey e Chain, due scienziati dell’università di Oxford, riuscirono nell’intento.
Al di là della fortuna iniziale, Flaming, Chain e Florey il premio Nobel per la medicina nel 11.945 EU (1945 d.C.) se lo sono decisamente meritati. Se Fleming non fosse stato uno scienziato così attento e dedito al suo lavoro, probabilmente il tutto sarebbe passato inosservato e tantissime infezioni sarebbero rimaste mortali per chissà quanto tempo ancora.
Fleming fu però anche molto autoironico e riconobbe lui stesso una parte di merito al caso, affermando addirittura che “Ci sono migliaia di muffe differenti e migliaia di batteri differenti e che la sorte abbia messo la muffa giusta nel punto giusto è stato come vincere alla Irish Sweep” (la lotteria irlandese abbinata alle corse dei cavalli).
Il pacemaker – una resistenza elettrica errata
Un’altra storia molto curiosa è quella di Wilson Greatbatch, colui che ha inventato il pacemaker… per sbaglio!
Ve lo immaginate? “Opss, ho inventato il pacemaker…vabbè capita!”
L’ingegnere stava studiando le correlazioni tra cuore e sistema elettrico per ottenere un transistor che registrasse il battito cardiaco, in modo da poter identificare potenziali problemi di salute.
Un giorno, allungando la mano nella cassetta dei componenti per prendere un resistore, probabilmente lo fece con gli occhi bendati perché ne afferrò uno troppo grande, con una resistenza sbagliata. Così facendo ottenne erroneamente un apparecchio in grado di produrre pulsazioni identiche al normale battito cardiaco.
Greatbatch si rese subito conto di avere tra le mani un vero e proprio tesoro: aveva infatti creato un dispositivo che poteva fungere da pacemaker artificiale per sostituire il pacemaker naturale difettoso nelle persone affette da problemi cardiaci.
L’era dei pacemaker impiantabili
A questo punto, Greatbatch cercò di placare il suo entusiasmo onde evitare un infarto e quindi la necessità di usare il pacemaker per se stesso.
Il passaggio successivo era aggiungere una batteria che garantisse il funzionamento del dispositivo a lungo termine ma, soprattutto, era essenziale riuscire a ottenerne uno che funzionasse in un ambiente totalmente diverso da un laboratorio, ovvero il corpo umano.
Per raggiungere questo scopo aveva bisogno di alleati che non potevano sicuramente essere altri ingegneri… nulla contro gli ingegneri eh, ma era ormai giunto il turno dei medici.
Insieme al suo assistente e a un medico chirurgo, Greatbatch collegò gli elettrodi al cuore esposto di un cane senza però impiantare l’apparecchio nell’animale, perché ancora la procedura chirurgica idonea non era nota.
Con grande gioia constatarono che il pacemaker artificiale, seppur non impiantato, stava funzionando come previso.
In realtà, all’epoca c’erano già in giro altri pacemaker che però non funzionavano ancora adeguatamente. Greatbatch quindi non era il solo a lavorare su questi dispositivi e, se voleva sfruttare al meglio la botta di fondoschiena e fare la differenza, doveva darsi una mossa.
Fu nel ’60 che i suoi pacemaker vennero impiantati per la prima volta negli essere umani e con grande successo! Dopo anni di pacemaker esterni, era ufficialmente nata l’era dei pacemaker impiantabili. Lo scienziato fece finalmente i salti di gioia, tirò un sospiro di sollievo e brevettò l’invenzione.
Insomma, sbagliando si impara ma a quanto pare ogni tanto si salvano anche delle vite…
Il benzene: tra sogni e realtà
In questo improbabile e bizzarro cast di persone di scienza alle prese con il caso rientrano anche coloro che poi si sono chiesti “ma questa scoperta l’ho fatta davvero o sto solo sognando?”.
Un esempio è Friedrich August Kekulè.
Nell’11.865 EU (1865 d.C.) il chimico pubblicò un articolo dove definì la struttura esagonale del benzene. Ovviamente in molti gli chiesero come avesse ottenuto questo risultato e lui rispose che gli era apparso in sogno per ben due volte (chissà la faccia degli altri scienziati dopo questa risposta).
La prima volta era seduto sul suo veicolo, quando a un tratto si assopì e vide gli atomi danzare vorticosamente e creare forme inusuali mai viste prima.
La seconda volta invece era seduto a scrivere il suo libro di testo quando si rese conto di non riuscire a proseguire oltre perché troppo assorto dai suoi pensieri. Girò quindi la sedia verso il fuoco del caminetto e, tanto per cambiare, si appisolò. Beato lui che riusciva ad addormentarsi ovunque!
A quel punto ebbe di nuovo una visione atomica, nel vero senso della parola: vide gli atomi unirsi in lunghe file, sinuose e ricurve che si attorcigliavano con un movimento simile a quello di un serpente. Addirittura uno dei serpenti a un certo punto afferrò la sua stessa coda con la bocca… eppure Kekulè non aveva fatto uso di funghetti allucinogeni.
Insomma, c’è chi sogna i numeri da giocare a lotto, chi sogna di essere bocciato agli esami, chi di sposarsi e poi c’è Kekulè che ha avuto il Kulè (il suo cognome dice già tutto) di fare un sogno che ha lasciato il segno nella storia della chimica.
La nascita del dolcificante saccarina
Non esisteva nulla di più dolce del miele e dello zucchero almeno fino al 1879, ovvero fino a quando il chimico Constantin Fahlberg non si mise a lavorare su composti derivati dal catrame. Voi giustamente vi starete chiedendo: ma che caspita c’entra il catrame con lo zucchero?
Un’insolita dolcezza
Un giorno il chimico si era trattenuto fino a tardi in laboratorio per completare degli esperimenti quando, a un certo punto, iniziò a sentire uno strano rumore: non aspettatevi nulla di avvincente, era solo la sua pancia che brontolava. Talmente non ci vedeva più dalla fame che, alla faccia dell’igiene e della sicurezza alimentare, non si lavò le mani prima di cenare.
Mentre assaporava finalmente un pezzo di pane, percepì un sapore insolitamente dolce. Capì che il problema non era l’impasto nel momento in cui si pulì la bocca con un tovagliolo e si accorse che era dolce persino quello.
La conferma però giunse quando bevve un bicchiere d’acqua posando le labbra proprio nel punto in cui le sue dita lo avevano toccato e l’acqua sapeva di sciroppo per quanto era dolce!
La dolcezza quindi era palesemente nelle sue dita. Si leccò il pollice (perché se non ti lecchi le dita godi solo a metà) e si rese conto di aver scoperto una sostanza più dolce dello zucchero stesso.
L’assaggiatore di provette
Dopo questo pasto all’insegna della dolcezza, Fahlberg tornò al suo laboratorio per capire esattamente di cosa si trattasse e per questo assaggiò il contenuto di ogni provetta: “Fortunatamente per me nessuna conteneva acidi o sostanze velenose”. Insomma, anche simpatico questo chimico!
Da questi assaggi da bravo sommelier venne fuori che una delle provette conteneva una soluzione impura di saccarina. Da allora ci lavorò su per mesi fino a determinarne l’esatta composizione chimica e i modi migliori per produrla. Superando lo scetticismo iniziale, il successo commerciale del dolcificante saccarina fu davvero notevole e Fahlberg potè fondare un’azienda di successo.
Come potremmo raggiungere la serendipità?
Dopo questo excursus di scoperte a dir poco esilaranti, sicuramente vi starete chiedendo se esiste un modo per raggiungere, o comunque favorire, la serendipità.
Una cosa è certa: l’essere curiosi può essere di grande aiuto. Se non sei curioso potresti non accorgerti che la strada verso la serendipità è proprio davanti a te.
E’ importante anche non essere troppo frettolosi, per poter prendere coscienza di ciò che ci circonda e notare dettagli che altrimenti potrebbero sfuggirci.
Ma anche essere dinamici e attivi, muoversi in qualche direzione per non restare immobili nella comfort zone, altrimenti non ci troveremo mai nel posto giusto al momento giusto e l’occasione non si presenterà mai.
Una persona con tanta serendipità è infatti in grado di trarre profitto dalle circostanze inaspettate: non si lascia di certo trasportare passivamente dal caso, ma, anzi, lo sa gestire e pure bene.
Conclusioni
Quindi, ricapitolando un po’: le persone fanno sogni strani senza neanche fare uso di alcol e sostanze, si distraggono, si dimenticano di mangiare e di lavarsi le mani e quando mangiano lasciano il cibo sparso in laboratorio, assaggiano i loro stessi esperimenti e così fanno scoperte geniali e sbancano con aziende di successo. Quanto li stiamo invidiando…
Per consolarvi sappiate che se la sfortuna vi persegue esiste un nome anche per quello ed è Zemblanity, che è l’opposto di Serendipity e si riferisce al fare “scoperte infelici e sfortunate”. Quindi d’ora in poi al posto di “sfiga” potrete utilizzare un termine più aulico e ricercato.
Insomma, abbiamo assodato che con la serendipità dalla propria parte è tutto più facile ma, tranquilli, anche se non dovessimo mai fare scoperte rivoluzionarie qualche bella botta di fortuna prima o poi nella vita ce la becchiamo.
La felicità arriva sempre quando meno ce lo aspettiamo, basta saperla cogliere anche (e soprattutto) nelle piccole cose.
Ho conseguito la laurea triennale in scienze biologiche e la laurea magistrale in scienze biosanitarie, curriculum nutrizionistico, all’università di Bari “Aldo Moro”. Amo la biologia in ogni sua sfaccettatura con un occhio di riguardo per l’ambiente e la nutrizione. Ho scelto di fare divulgazione per trasmettere agli altri la mia passione e per far comprendere l’importanza della scienza, spesso sottovalutata. Il mio motto è “Nulla di grande nel mondo è stato fatto senza passione”.