VOYEURISMO MOLECOLARE – la Cryo-EM
Un po’ di storia sulle lenti
Partiamo dal 1000 d.C., quando si hanno le prime informazioni circa l’utilizzo della “pietra della lettura”, un semplice pezzo di vetro di forma sferica (“unus lapis parvus cristalli”) che veniva fatto scorrere sul testo da leggere [1]. Dopo circa 300 anni compaiono i primi occhiali da vista, la cui invenzione viene erroneamente attribuita a Salvino D’Armati (in realtà pare siano stati i vetrai di Murano a inventare i “roidi da ogli”!). Nel 1590, Hans Martens/Zacharias Janssen affermarono di aver inventato un microscopio (uno strumento lungo circa 40 centimetri, composto da tre tubi che scorrevano uno dentro l’altro) e nel 1609 Galileo sviluppava la prima disposizione con una lente convessa e una concava, conosciuta come microscopio composto (nel 1624 avrebbe messo a punto un telescopio di dimensioni ridotte, chiamato occhialino). Da non dimenticare Van Leeuwenhoek, noto soprattutto per il suo lavoro pionieristico nella microscopia: intorno al 1670 utilizzava microscopi a lente singola di sua stessa invenzione (a lui dobbiamo la scoperta dei dierkens [2]).
Si diede inizio alla saga dell’osservare “l’invisibile” e nel 1665 Robert Hooke coniò la parola cellula per la struttura che osservava in una corteccia di sughero: da allora il mondo non fu più lo stesso!
Possiamo vedere le molecole al microscopio ottico?
Il microscopio ottico utilizza un sistema di lenti capaci di raccogliere, indirizzare e focalizzare i raggi di luce emessi da una sorgente, così da produrre un’immagine ingrandita di oggetti molto piccoli. Siamo tuttavia nello spettro della luce del visibile (ovvero lughezze d’onda, dai 390 ai 700nm, percepibili all’occhio umano). È necessario, a questo punto, chiarire l’importanza del potere di risoluzione del microscopio rispetto al nostro vedere, e che non va confuso con l’ingrandimento di un oggetto.
Il microscopio ottico ha un potere di risoluzione di 0,2 micrometri (200 nanometri), proporzionale alla lunghezza d’onda della luce: questo vuol dire che noi non possiamo distinguere in modo chiaro gli oggetti che si trovano sotto questa distanza. Questo limite dipende proprio dalla luce bianca che è il mezzo che si usa per illuminare l’oggetto.
Sono stati Manfred von Ardenne e Ernst Ruska negli anni 30 a frantumare il “soffitto di cristallo” di questo limite, creando il microscopio elettronico che consente di ingrandire un particolare più di 100 mila volte: l’oggetto viene esaminato con un fascio di elettroni, anziché con luce visibile.
Richard Feynman una volta affermò notoriamente: “È molto facile rispondere a diverse domande biologiche fondamentali; basterebbe “guardare” semplicemente la cosa!” Eh, pare facile!
La microscopia elettronica: il nuovo paradigma nella Biologia Strutturale
Gli elettroni interagiscono con gli atomi in maniera molto efficiente, possono essere focalizzati con lenti elettromagnetiche, presentano lunghezze d’onda molto brevi dal punto di vista ondulatorio ed offrono il vantaggio di esaminare i campioni in soluzione, sotto condizioni native prossime a quelle delle macromolecole in vivo, a differenza per esempio della cristallografia a raggi X, che necessita la formazione di un cristallo (non facile!).
Dobbiamo considerare però due importanti implicazioni: il “bombardamento elettronico” che causa la distruzione di un campione biologico e la camera interna del microscopio che deve essere mantenuta ad elevati livelli di vuoto, per permettere la corretta emissione del fascio elettronico.
Sono stati necessari progressi sia nelle tecniche di crio-congelamento che nello sviluppo di detector particolarmente sensibili (una conquista degli ultimi 5 anni): nasce cosi la “single particle cryo-EM”, per la quale i 3 tre ricercatori Jacques Dubochet, Joachim Frank e Richard Henderson hanno condiviso ha valso il Premio Nobel per la Chimica 2017.
Veniamo al freddo: crio-congelamento e vetrificazione
Tutto il processo sperimentale si basa sul congelamento rapido della soluzione acquosa della biomolecola da testare, che assicuri la solidificazione dell’acqua in maniera amorfa (processo chiamato vetrificazione), evitando la formazione di cristalli di ghiaccio che oscurerebbero il fascio elettronico. Il metodo fu proprio sviluppato da Dubochet e colleghi: il campione biologico viene immerso in etano liquido portando l’acqua alla temperatura di -196 °C.
La “grid”
Serve un supporto per questo procedimento: una “grid” (così chiamata per la sua struttura finemente reticolata), che non è altro che un disco metallico (tra i più adoperati troviamo rame, oro, nichel, molibdeno) del diametro di appena 3 mm, e ricoperto da un sottile strato di carbonio amorfo, o anche raramente grafene, oro o altri materiali (SiN, SiC, SiO2 o lega TiSi).
Il nostro campione biologico viene quindi applicato (servono pochi microlitri) su questa grid, il volume in eccesso viene rimosso con carta da filtro, e il supporto rapidamente immerso nel liquido criogenico. Questo serve a garantire che non si formino i cristalli di ghiaccio!
Evviva la Risoluzione!
Il campione viene caricato nel microscopio e si iniziano ad acquisire le immagini delle macromolecole sospese nel sottile strato di ghiaccio vitreo, il tutto sempre a temperature criogeniche.
Le prime acquisizioni d’immagini da microscopio elettronico furono effettuate utilizzando lastre fotografiche. Successivamente, nel 2012, arriva la “rivoluzione nella risoluzione” in Cryo-EM, con la generazione di dispositivi, meglio conosciuti come Direct Electron Detectors (DED), che combinavano l’immediatezza della risposta in fase di analisi all’elevata efficienza nel registrare il segnale [3].
Questa tecnica di biologia strutturale veniva chiamata da molti cristallografi, in senso dispregiativo, Blobology, proprio per via del basso potere risolutivo, che dava immagini poco distinte.
Vedere l’invisibile, compiere l’impossibile!
Inserito il campione nel microscopio elettronico, iniziamo il nostro viaggio con la raccolta di migliaia d’immagini, dette micrographs: servono circa 1-5 Terabyte di dati grezzi per esperimento!!
Ciascuna immagine contiene centinaia di particles (le macromolecole), distribuite in maniera caotica nello strato vitreo (~50-200 particelle per immagine). Ora potete immaginare quante centinaia di migliaia d’immagini di singole molecole un microscopista (o se volete “guardone“) deve analizzare e combinare secondo l’orientamento e la conformazione assunta da ciascuna, con lo scopo di sommare il segnale e minimizzare il rumore di fondo. Ragion per cui tale analisi comporta elevati carichi computazionali.
Le particelle vengono classificate a seconda della loro disposizione nello spazio vitreo (detta classificazione 2D) e successivamente vengono allineate per creare una mappa 3D. Questo passaggio, per quanto semplificato, rappresenta una parte cruciale e difficile (supportata da nuovi algoritmi che via via vanno perfezionandosi) che ci permetterà di vedere la macromolecola nella sua essenza!
Una grande Conquista: abbiamo superato, in questo modo, l’immagine bidimensionale della microscopia classica!
E se preferite, questo video semplificativo vi aiuterà a comprendere tutti i passaggi spiegati su.
Tutto sto pippone per?
Il contributo della microscopia elettronica classica alla biologia è immenso e immaginate le ricadute di questa tecnica sulla medicina! Ecco alcuni esempi:
Possiamo vedere le strutture delle proteine per poi sviluppare farmaci e composti che vanno a legarsi sulla superficie della proteina in modo preciso! Una cosa del tutto inimmaginabile fino a qualche anno fa! Di sotto una immagine che mostra una proteina coinvolta nel cancro e bersaglio per la produzione di nuovi chemioterapici.
Nello studio dei virus, questa tecnica ha permesso di visualizzare, come nel caso del virus Zika, le proteine diverse che ne compongono la superficie, e di vedere queste strutture arzigogolate come arabeschi [6].
Col la pandemia COVID-19, abbiamo visto tutti sia l’immagine del virus con i suoi spuntoni (spike), sia la proteina Spike stessa [7] che si sta utilizzando proprio per la produzione di un vaccino o per lo sviluppo di anticorpi o farmaci che impediscano alla stessa di legarsi al recettore ACE2 (porta di ingresso del virus nelle nostre cellule).
Questa tecnica ci sta anche permettendo di comprendere meglio gli implicati meccanismi che soggiacciono alle malattie neurodegenerative, come Alzheimer, Parkinson [8].
Concludendo, ancora con Richard Feynman:
Ho un amico artista che alle volte dice cose con le quali non sono molto d’accordo. Magari raccoglie un fiore e dice: “Guarda com’è bello”, e sono d’accordo; ma poi aggiunge: “Io riesco a vedere che è bello proprio perché sono un artista; voi scienziati lo scomponete in tanti pezzi e diventa una cosa senza vita”, e, allora penso che abbia le traveggole. Per cominciare, la bellezza che vede lui è accessibile a chiunque e quindi anche a me, credo. Non avrò un senso estetico raffinato come il suo, ma sono comunque in grado di apprezzare la bellezza di un fiore. Per di più vedo nel fiore molte cose che lui non riesce a vedere. Posso immaginare le cellule, là dentro, e i complicati meccanismi interni, anch’essi con una loro bellezza. Non esiste solo la bellezza alla dimensione dei centimetri, c’è anche su scale più piccole, nella struttura interna, o nei processi. La scienza può solo aggiungere; davvero non vedo come e che cosa possa togliere.
E infine, se qualcuno vi dice che siete solo belli dentro, non trovatelo banale o offensivo: È PROPRIO COSÌ!
[1] Rubin, Melvin L. (1986). “Spectacles: Past, present, and future”. Survey of Ophthalmology. 30 (5): 321-327.
[2] Anderson, Douglas. “Animalcules”. Lens on Leeuwenhoek. Retrieved 9 October 2019.
[3] https://www.cell.com/biophysj/pdf/S0006-3495(16)00142-9.pdf
[4] https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0092867415003694
[5] Banerjee et al., 2016. 2.3 Å resolution cryo-EM structure of human p97 and mechanism of allosteric inhibition. Science. Online January 28, 2016.
[6] DOI: 10.1126/science.aaf5316
[7] Cryo-EM structure of the 2019-nCoV spike in the prefusion conformation. Wrapp D, Wang N, Corbett KS, Goldsmith JA, Hsieh CL, Abiona O, Graham BS, McLellan JS. Science. 2020 Feb 19.
[8] https://analyticalscience.wiley.com/do/10.1002/micro.2289
Biochimica, giocoliera di macromolecole e vivo nel meraviglioso mondo di Proteinlandia. Ho un dottorato in Scienze Biochimiche (Università Sapienza di Roma). Lavoro in UK, dove cerco di svelare l’intricato mondo di batteri cattivissimi.
Sogno ricorrente: vestita da astronauta, con taniche piene di cristalli, e in viaggio verso la ISS, dove una volta arrivata faccio esperimenti di cristallografia delle proteine!
Faccio divulgazione perché ho bisogno di raccontare la Bellezza, quella a livello atomico, che non tutti hanno la fortuna di poter ammirare direttamente.