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Vladimir Komarov: “fino a qui tutto bene”

Sono le 20:32 ore italiane del 23 aprile ’67 e ci troviamo a pochi passi dal Cosmodromo di Bajkonur, in Kazakistan. Nella distanza vediamo un razzo, puntato al cielo e pronto a decollare. In cima a quel vettore, dentro la navicella Soyuz 7K-OK, c’è Vladimir Komarov, un uomo che non vorrebbe trovarsi lì, non dovrebbe esserci.

Quel cosmonauta sta imbarcandosi consapevolmente in una missione suicida per salvare un amico. Questa è la storia di uno dei più terribili ed evitabili incidenti nella storia dell’esplorazione spaziale.

L’idea tutt’altro che semplice

Nel pieno della corsa allo spazio, gli anni tra il ’60 e il ’65 furono costellati di importantissimi traguardi per il programma spaziale sovietico, in ordine: primo uomo nello spazio, primo volo di gruppo, prima donna nello spazio, primo equipaggio nello spazio, prima attività extra-veicolare.

Insomma, il palmarès sovietico era invidiabile.

Tuttavia, gli statunitensi iniziavano a recuperare il passo attraverso le missioni Gemini. Nel ’65, la NASA raggiunse un importante traguardo: il primo aggancio (detto “rendezvous”) tra le navicelle Gemini 6 e Gemini 7. L’anno seguente gli americani fecero il bis, questa volta con la Gemini 8.

I sovietici non poterono che stare a guardare, le navicelle Vostok non prevedevano un controllo manuale, figurarsi manovre così complesse quali un rendezvous.

Ancorati a manovre di volo semplici e privati del celebre ingegnere sovietico Sergei Korolev, progettista tra le altre cose del primo satellite della storia (Sputnik-1), e della missione che portò il primo essere umano nello spazio (Vostok-1), l’Unione Sovietica si trovava in seria difficoltà.

La chance per il sorpasso si presentò nel ’67, l’anno del disastro Apollo 1, durante il quale la NASA si vide costretta a fermarsi per ricalibrare l’intero programma di volo.

L’idea sovietica era ambiziosa. Sfruttare lo stop temporaneo dei rivali d’oltreoceano per realizzare il primo rendezvous della storia con scambio di equipaggio.

Le navicelle Soyuz 7K-OK appartenenti alle missioni Soyuz-1 e Soyuz-2 si sarebbero agganciate in orbita, dopodiché due cosmonauti provenienti dalla seconda navicella avrebbero raggiunto Vladimir Komarov sulla Soyuz-1.

La scelta di Vladimir Komarov

All’alba del lancio, gli ingegneri al lavoro sulla missione segnalarono alle sfere più alte di comando oltre 203 criticità strutturali nella navicella che avrebbero non solo compromesso la missione, ma condannato il cosmonauta stesso. Tuttavia, l’annullamento della missione non era in discussione.

Venne proposto a Vladimir Komarov di rinunciare al volo, lasciando il posto in cabina a Jurij Gagarin, designato come pilota di backup. In sostanza, si stava chiedendo a Komarov di scegliere se condannare la propria vita o mandare a morte certa un amico.

La risposta è già di nostra conoscenza: alle 20:32 ore italiane del 23 aprile ’67, Komarov decolla a bordo della Soyuz 7K-OK.

“Il problema non è la caduta…”

Originariamente, la missione prevedeva che Komarov avrebbe dovuto mantenersi in orbita terrestre per circa 24 ore, il tempo necessario affinché venisse raggiunto dalla Soyuz-2, per poi avviare le procedure di rendezvous. Tuttavia, i primi problemi iniziarono molto prima.

La Soyuz 7K-OK era dotata di due pannelli solari necessari per alimentare la strumentazione di bordo. Di questi, un pannello risultava non funzionante e come se non bastasse, i comandi di volo utili a orientare la navicella verso il Sole (al fine di alimentare l’unico pannello funzionante) non sembravano rispondere correttamente.

Si capì immediatamente che Komarov non avrebbe potuto attendere l’arrivo dei colleghi della Soyuz-2.

Schema costruttivo Soyuz 7K-OK
Schema costruttivo della navicella Soyuz 7K-OK di tipo A, con sistema di docking attivo. © Fonte: dominio pubblico, NASA

Sulla Terra il comando di volo aveva le mani legate, una tempesta di fulmini assediava infatti il cosmodromo di Bajkonur, impedendo il decollo della seconda squadra. Bloccato in orbita e isolato dai colleghi, si iniziò a lavorare nel capire come portare a terra Komarov.

Come ennesima aggiunta alla serie di problematiche, il sistema di comunicazione della Soyuz 7K-OK presentava serie difficoltà nel garantire una comunicazione efficace con la sala di controllo. Si decise di utilizzare solo le onde VHF (very high frequency) che tuttavia permettevano la comunicazione soltanto quando la navicella sorvolava il territorio sovietico.

Si tentarono due rientri forzati in atmosfera, rispettivamente alla sedicesima e diciassettesima orbita. Senza successo. Alla diciottesima orbita fu Komarov stesso a tentare un rientro, contando di poter rientrare nello spazio aereo sovietico in concomitanza con le ore diurne. La manovra ebbe successo. La Soyuz 7K-OK cominciava la sua caduta verso la Terra.

“…ma l’atterraggio”

A circa 7 chilometri dalla superficie terrestre, Komarov si apprestò ad attivare i paracadute necessari ad arrestare la navicella dalla sua caduta libera. Come ultima e fatale criticità strutturale, sia i paracadute principali che quelli di riserva mancarono di aprirsi correttamente.

La Soyuz 7K-OK, privata di qualunque sistema frenante, colpì il suolo a una terrificante velocità di 40 metri al secondo (144 km/h). Vladimir Komarov morì sul colpo, a solo quarant’anni.

Voci ufficiose affermarono che i suoi ultimi istanti di vita furono scanditi da segnali radio con richieste di aiuto, captate da radioamatori occidentali. Tuttavia, data la natura del sistema di comunicazione in VHF e la quota da cui esso trasmetteva (circa 6 km), è altamente improbabile che le comunicazioni abbiano superato i confini dell’Unione Sovietica.

Gli eventi della missione Soyuz-1 scossero profondamente il programma spaziale sovietico che si vide costretto a rivedere completamente gli schemi costruttivi della Soyuz 7K-OK. L’ambizioso piano sovietico di effettuare il rendezvous con scambio di equipaggio venne portato a termine con le missioni Soyuz-4 e Soyuz-5, ben due anni dopo.

Il sacrificio di Vladimir Komarov salvò innumerevoli vite, non solo quella di Jurij Gagarin, ma quella di tutto l’equipaggio della Soyuz-2, la cui missione venne cancellata proprio a seguito delle denunce del cosmonauta.

Jurij Gagarin sarebbe morto appena due anni dopo, a nemmeno trentacinque anni, durante un volo di collaudo.

Fallen Astronaut

Sulla superficie lunare, in un cratere del Mare Imbrium, riposa una piccola statuetta in alluminio di appena dieci centimetri in altezza. Il suo nome è “Fallen Astronaut“, astronauta caduto, e fu portata sul satellite dagli astronauti appartenenti alla missione Apollo 15, nel ’71, attraverso un’iniziativa del tutto personale.

Vicino questa scultura è posta una targhetta metallica. Questa recita il nome dei quattordici astronauti, otto astronauti e sei cosmonauti, la cui vita è stata sacrificata affinché l’Umanità potesse raggiungere le Stelle: tra loro i membri dell’Apollo I, ma anche Gagarin e Komarov.

Statuetta "The fallen astronaut", Van Hoeydonck, 1971
Statuetta “Fallen Astronaut” e targhetta commemorativa. © Fonte: dominio pubblico, NASA

Fonte

An analysis of the Soyuz-1 flight – Sven’s Space Place [eng]

1967: Russian cosmonaut dies in space crash – BBC News, On This Day [eng]

Cosmonaut Crashed Into Earth ‘Crying In Rage’ – NPR [eng]

International Flight No. 23 – Soyuz 1 “Ruby” – SPACEFACS [eng]

Michael Di Maio

Laureato in Scienze Biologiche presso l'Università degli Studi di Ferrara e studente magistrale in Molecular and Cell Biology presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna. Profondamente innamorato della Scienza in tutte le sue diramazioni, di musica elettronica e cyberpunk.

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