Visione e illusioni ottiche: parte 2
Nella prima puntata ci siamo lasciati con una frase enigmatica: “È come se ciascuno di noi avesse continuamente allucinazioni e quella che chiamiamo percezione consistesse soltanto nello scegliere l’allucinazione che meglio corrisponde all’input del momento”.
Ma quindi viviamo davvero in una realtà che non esiste, limitata alla nostra osservazione soggettiva? Tralasciando i mille concetti filosofici e psicologici dietro alla soggettività della realtà (sennò davvero ne usciremmo in preda alla pazzia), concentriamoci sulla visione: come facciamo a riconoscere le immagini?
Riconoscimento delle immagini
Il modo esatto in cui avviene il riconoscimento delle cose (che siano volti, oggetti o animali) è tutt’ora un mistero.
Come fanno i nostri neuroni ad accorgersi che si tratta di un tavolo piuttosto che di un volto? Quali sono gli attributi che definiscono un tavolo?
Nonostante le tante forme stravaganti che un tavolo può assumere siamo sempre in grado di riconoscerlo. Sembrerebbe che la cosa fondamentale sia la sua funzione, piuttosto che la presenza di un ripiano e le gambe. In qualche modo il sistema nervoso traduce la funzione dell’oggetto in sinonimo della percezione di un tavolo.
Ma, soprattutto, se abbiamo un volto davanti a noi, come facciamo a riconoscere all’istante una persona? Eppure abbiamo archiviato nella nostra memoria (ehi, vuoi saperne di più sulla memoria? Leggi questo nostro articolo su memoria e plasticità cerebrale) così tanti volti diversi.
Bene, sembrerebbe che certe caratteristiche (o firme) di un oggetto (o di un volto) fungano da scorciatoia per riconoscerlo.
Ad esempio, guardiamo questa immagine:
Non è nient’altro che un cerchio con una piccola virgola al centro e due mezzi ovali. Eppure ci vediamo il sedere di un maiale.
Oppure quest’altra immagine:
A sinistra vediamo 4 palle ai lati di due linee verticali. Basta aggiungere piccoli particolari, come gli artigli, e a destra immaginiamo un orso che si arrampica su un albero.
Queste immagini ci suggeriscono che specifiche “etichette” sono sufficienti per farci riconoscere un’immagine. Infatti, nella prima immagine non vedremmo un sedere di un maiale se la virgola fosse fuori dal cerchio.
Per cui resta la domanda: “Come fa l’apparato visivo a determinare i rapporti tra le caratteristiche per identificare un’oggetto?”. Ne sappiamo ancora poco.
Riconoscimento dei volti
La questione diventa ancora più spinosa se pensiamo al riconoscimento dei volti.
Guardiamo quest’immagine:
Perché riconosciamo quello a sinistra come volto e quello a destra no? Eppure entrambi sono formati da una circonferenza, due palle e due linee.
Quindi, per riconoscere un volto, sembrerebbe essere importante il posizionamento delle forme. È come se il cervello avesse creato uno stampo generico del volto umano, facendo la media tra le migliaia di facce presenti nella memoria. Poi, ogni volta che incontra un volto nuovo, lo confronta con lo stampo. Così il pattern di deviazione dal volto medio diventa lo stampo specifico per quel volto.
Facciamo una spiegazione “romanzata” per capirci meglio.
Per esempio, rispetto al volto medio, quello di Richard Nixon ha un naso grosso e sopracciglia cespugliose.
Il nostro cervello prende la faccia di Nixon, la sovrappone allo stampo generico del volto umano e ne annota le differenze. Così, costruisce uno stampo specifico per la faccia di Nixon. In questo modo ogni volta che vediamo la sua faccia siamo in grado di riconoscerla grazie alle sue peculiarità.
Se prendessimo il volto di Nixon e creassimo una caricatura del suo volto, con un naso ancora più grosso e le sopracciglia super cespugliose, andremmo ad attivare in modo ancora più forte la stessa serie di neuroni che si attiverebbero guardando il volto originale.
Questa fu una scoperta sensazionale, tanto che è stata addirittura usata per migliorare la discriminazione dei volti in soggetti con un deficit visivo (come la prosopagnosia: difficoltà di riconoscere i volti) [1].
Visione del movimento
Un’altra funzione importante della nostra vista è la percezione del movimento. Potremmo immaginare il nostro sistema visivo come una videocamera, in grado di registrare un certo numero di fotogrammi al secondo. Grazie alla registrazione di questi fotogrammi siamo in grado di riconoscere il movimento.
Ricordiamo che il nostro cervello ha specifiche aree che svolgono un determinato compito. Purtroppo però, come vedremo più avanti, non sempre quest’aree sono ben definite.
L’area predisposta alla percezione del movimento è l’area temporale media. Se quest’area è lesionata, perdiamo la capacità di vedere gli oggetti in movimento.
Caratteristico è il caso di una donna di nome Ingrid che ebbe un ictus che danneggiò proprio quest’area [2]. Ingrid era in grado di leggere il giornale, riconoscere gli oggetti e le persone. Ma non era in grado di percepire il movimento. Infatti non riusciva a riempire un bicchiere d’acqua o ad attraversare la strada. Quando versava l’acqua nel bicchiere, il flusso le pareva un ghiaccio immobile. Non riusciva a valutare l’aumento del volume del liquido, che regolarmente traboccava.
Sembrerebbe, dunque, che l’area temporale media sia predisposta soprattutto alla visione del movimento, e non ad altre funzioni legate alla visione.
Ma come si fa per capire le funzioni di un’area cerebrale?
Esistono essenzialmente tre metodi:
- È possibile registrare l’attività dei singoli neuroni e vedere quando essi si attivano. Nel nostro esempio sarebbe possibile vedere come i neuroni dell’area temporale media si attiverebbero soprattutto se il soggetto vede un oggetto in movimento. Esistono delle tecniche adatte a studiare il cervello umano, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Essa registra le variazioni del campo magnetico indotte dalle variazioni del flusso ematico. Quando una specifica area del cervello è attiva, arriva più sangue. Questo produce una variazione del campo magnetico, registrabile con la fMRI.
- Si possono utilizzare dei microelettrodi per stimolare specifici neuroni. Infatti, stimolando i neuroni dell’area citata sarebbe possibile vedere un movimento degli occhi, come se il soggetto stesse seguendo un’oggetto in movimento.
- Inoltre, è possibile studiare cosa accade a soggetti che hanno una specifica area del cervello danneggiata. Come il caso della signora Ingrid. Oppure si potrebbero indurre delle lesioni cerebrali temporanee in specifiche aree usando uno stimolatore magnetico transcranico.
Tutte queste tecniche potrebbero sembrare eccessive per dimostrare la funzione di un’area cerebrale. Ma in campo scientifico fa sempre bene avere prove convergenti che dimostrano la stessa cosa.
Vie della visione
Purtroppo, però, la maggior parte delle circa trenta aree visive non rivela chiaramente le proprie funzioni. Forse perché non sono estremamente specializzate come l’area temporale media. O forse perché, se danneggiate, le loro funzioni possono essere facilmente compensate da altre regioni. O ancora perché la nostra definizione di funzione è mal posta.
Ma, senza ingarbugliarci nell’incredibile complessità della mente umana, esiste uno schema organizzativo piuttosto semplice per capire come funziona il processo di visione.
Le informazioni arrivano al cervello dalla retina attraverso due vie. Senza perderci in tantissimi nomi anatomici possiamo definire una via come “arcaica” e l’altra come “recente”.
La via arcaica è preposta agli aspetti spaziali, permettendoci di stabilire dov’è un oggetto nel campo visivo ma non che oggetto è. Se questa via è danneggiata, la persona sviluppa una visione a tunnel, riuscendo a vedere solo gli oggetti che ha difronte al proprio naso.
La via recente è suddivisa in altre due vie: la via del dove e la via del cosa.
La via del dove ci permette di definire i rapporti tra gli oggetti. Quindi, ha una funzione che in un certo senso si sovrappone a quella della via arcaica, ma invece che focalizzarsi su un unico oggetto determina la struttura totale della scena visiva.
Quest’area è fondamentale, ad esempio, per schivare degli oggetti che ci vengono lanciati addosso. Se un amico ci lancia una pietra (in tal caso rivedrei la definizione di amico) noi quasi automaticamente la schiviamo. Siamo in grado di farlo proprio grazie a questa via, che è estremamente collegata con il sistema motorio.
Ma se essa è danneggiata, seppur saremmo in grado di vedere la pietra che ci viene addosso, non saremmo in grado di schivarla. Ed ecco che il nostro amico si macchierebbe la fedina penale per tentato omicidio.
La via del cosa è invece chiamata anche “il collezionista”. Ha, infatti, la funzione di riconoscere gli oggetti e catalogarli in modo preciso. Ci permette quindi di distinguere un tavolo da una sedia, una P da una Q eccetera.
Ma non solo. Questa via manda segnali principalmente (ma non solo) a due aree: una relativa al linguaggio (area di Wernicke) e un’altra con capacità squisitamente umane con la funzione di dare nomi, contare, leggere e scrivere (area parietale inferiore).
Da queste due aree le informazioni vengono inviate al centro delle emozioni (l’amigdala), in grado di scaturire sentimenti in base a quello che vediamo.
Blind vision
In un nostro vecchio post abbiamo già parlato di questo argomento, ma lo citerò qui per completezza.
Se è danneggiata la via recente, ma è intatta la via arcaica, succede qualcosa di davvero strano.
Come abbiamo detto prima la via arcaica ha la funzione di stabilire dov’è un’oggetto nello spazio. La cosa però che non abbiamo detto è che lo fa in maniera del tutto incosciente.
Citiamo un famoso caso clinico studiato per primo da Larry Weiskrantz negli anni Settanta [4].
Un paziente di nome Gy aveva subito una lesione della corteccia visiva sinistra (origine sia della via del dove che della via del cosa). Di conseguenza aveva perso la metà destra del campo visivo di entrambi gli occhi (perché la corteccia visiva di sinistra riceve l’immagine proveniente dal campo visivo di destra dei due occhi e la corteccia visiva di destra riceve l’immagine proveniente dal campo visivo di sinistra).
Almeno così sembrava prima che Gy fu sottoposto a un esperimento. Gy fu messo davanti a uno schermo sul quale appariva un puntino, proiettato nella metà del campo visivo cieca.
Il medico disse a Gy di indicare il puntino. Al che Gy rispose “Quale puntino?”. Il medico lo implorò di provarci. Con stupore Gy indicò un punto che per lui era a caso, ma diamine, corrispondeva proprio al puntino apparso sullo schermo. “Mbah, sarà stato un caso” pensò il medico. Quindi riprovarono altre e altre volte.
Gy aveva un’accuratezza perfetta. Nonostante questo non era un falso invalido. Infatti era vero che non vedeva. Almeno non consciamente.
Il merito della sua “visione cieca” era proprio della via arcaica descritta prima. Nonostante Gy fosse convinto di non vedere, in realtà vedeva almeno inconsciamente. La via arcaica inviava direttamente informazioni al lobo parietale (importanti per la percezione), che aveva indotto la mano a muoversi nella direzione giusta.
Una terza via: via emozionale
Oltre alla via arcaica e alla via recente, esiste anche un’altra via definibile “via emozionale”. Questa invia informazioni direttamente all’amigdala senza aspettare tutto il tempo che ci impiega la via del cosa e ci permette quindi di “reagire d’istinto”.
Questa via è in grado di valutare se l’informazione ha importanza emotiva. Se ad esempio vediamo un pericolo, subito dall’amigdala parte un segnale diretto all’ipotalamo che attiva una serie di risposte fisiologiche per affrontare il pericolo (aumento del battito cardiaco e della frequenza respiratoria, sudorazione, eccetera).
Inoltre, dall’amigdala le informazioni arrivano anche ai lobi frontali, che ci aggiungono un po’ di sapore al cocktail di emozioni (rabbia, paura, libidine, eccetera).
Qualche strano caso
Ora che abbiamo costruito le basi del funzionamento della visione vediamo qualche strano caso. Sono sicuro che sarete in grado anche voi di fare una diagnosi.
Agnosia: L’uomo che non riconosceva cosa vedeva
John era un uomo di 60 anni, che fu portato in un pronto soccorso a Middlesex (Inghilterra) perché soffriva di un fortissimo dolore addominale, iniziato vicino all’ombelico e poi migrato verso il lato inferiore destro dell’addome. Sembrava un banalissimo caso di appendicite. Per cui fu tranquillamente curato e mandato a casa.
Quello che non sapeva era che l’inferno era appena iniziato. Durante la convalescenza un piccolo embolo, formatosi in una vena della gamba, finì per arrivare in un’arteria cerebrale provocando un ictus.
Il primo segno si avvertì quando la moglie entrò nella camera di degenza. John non la riconobbe. O meglio, diceva di riconoscere la sua voce, ma era convinto che quella che vedeva non fosse la moglie. Per di più non era in grado di riconoscersi allo specchio. Diceva: “So che sono io perché strizza l’occhio quando lo strizzo io e si muove quando mi muovo io (…), ma non ha la mia faccia”.
Per di più non riconosceva gli oggetti famigliari. Quando gli mostrarono una carota disse: “è un affare lungo con un ciuffetto in cima. Un pennello, forse”.
Cosa era successo al caro John? Potete rispondere anche voi.
Ebbene sì, era stata danneggiata proprio la “via del cosa”. John vedeva perfettamente, era in grado di localizzare un oggetto nello spazio, di descriverne le dimensioni, la forma e il movimento. Ma non riusciva a riconoscere cosa vedeva.
Sindrome di Capgras: il ragazzo che non riconosceva sua madre
David ebbe un incidente automobilistico che lo lasciò in coma per due settimane. Dopo essersi risvegliato, si riprese molto bene. Era lucido, vigile e attento.
Tuttavia, ogni volta che vedeva la madre delirava gridando all’impostore. David era convinto che quella non fosse la madre, nonostante gli apparisse identica. Questo disturbo non si verificava, però, quando David parlava al telefono con la mamma.
Cosa poteva essere successo?
David riconosceva sua madre, quindi la “via del cosa” era intatta. Nonostante questo, però, era convinto che quella non fosse la madre.
Ricordiamo la terza via, quella emozionale. Essa collega l’immagine all’emozione, ed era proprio essa a essere danneggiata. David infatti riconosceva la madre, ma siccome il collegamento percezione-emozione era stato interrotto, il viso di sua madre non suscitava i previsti sentimenti di calore.
Forse, l’unico modo per David di razionalizzare questa mancanza di emozioni era concludere che quella non fosse la madre ma un impostore.
Conclusione
“Di norma, la percezione del mondo ci appare così naturale che tendiamo a darla per scontata (…) Solo quando qualcosa va storto, ci rendiamo conto di quanto quella percezione sia straordinariamente sofisticata. Anche se ci sembra coerente e unitario, in realtà il quadro che ci facciamo del mondo è il risultato delle trenta (o più) distinte aree corticali visive, ognuna delle quali media funzioni sottili multiple.”
(Tratto da: “L’uomo che credeva di essere morto e altri casi clinici sul mistero della natura umana” di Vilayanur S. Ramachandran [2])
Arrivati alla conclusione spesso mi viene da chiedere: “Quindi alla fine dei conti qual è il messaggio chiave di questo articolo?”.
Beh, sappiate che dietro anche alla più grande banalità si nasconde un mondo. In questo articolo abbiamo cercato di capirne un po’ di più, ma ci sono tantissime cose di cui non ho parlato e tantissime altre da scoprire.
Ad esempio, spesso ho citato “percezione” e “coscienza”. Forse facendo un sopruso di queste parole.
Ma sappiamo davvero cosa significano?
Forse stiamo dando per banale troppe cose, anche questa volta.
Nei prossimi articoli cercheremo di scendere ancora più giù, nell’abisso della conoscenza di se stessi.
Fonti
[1] Dawel, A., Wong, T. Y., McMorrow, J., Ivanovici, C., He, X., Barnes, N., … & McKone, E. (2019). Caricaturing as a general method to improve poor face recognition: Evidence from low-resolution images, other-race faces, and older adults. Journal of Experimental Psychology: Applied, 25(2), 256. DOI: 10.1037/xap0000180
[2] Ramachandran, S.V. (2013). L’ uomo che credeva di essere morto e altri casi clinici sul mistero della natura umana. Mondadori.
[3] Chunharas, C., & Ramachandran, V. S. (2016). OUT OF THE SHADOWS. Scientific American Mind, 27(4), 56-61. https://www.jstor.org/stable/24945459
[4] Weiskrantz, L. (1986). Blindsight: A Case Study and Implications. Cambridge University Press.
[5] Grill-Spector, K., Weiner, K. S., Kay, K., & Gomez, J. (2017). The functional neuroanatomy of human face perception. Annual review of vision science, 3, 167-196. DOI: 10.1146/annurev-vision-102016-061214
Sono Tommaso Magnifico, studente di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Bari e Socio Mensa (The high IQ society).
Scrivo articoli specialmente riguardati la medicina in tutte le sue sfaccettature: dal pronto intervento alla psicologia.
Potere alla scienza!!!