La storia (assurda) del pomodoro
Il pomodoro (Solanum lycopersicum) è una delle piante cardine dell’alimentazione e della cultura italiana.
Pensate a come sarebbe stato il mondo senza il pomodoro.
Non potremmo comporre il tricolore nella caprese, il ragù e la pizza non sarebbero gli stessi. Probabilmente di pari passo si estinguerebbero i mandolini e tutti gli altri luoghi comuni sugli italiani.
Eppure, il pomodoro, come altre solanacee (melanzane, peperoni, patate), è stato importato dalle Americhe in Italia relativamente di recente. Soprattutto se lo paragoniamo a colture come il frumento e l’ulivo che invece sono presenti nell’areale del Mediterraneo da molto più tempo.
La storia di questa specie è estremamente interessante e, come per quella dell’avocado, ricca di aneddoti che riguardano Aztechi, processi a Salem (la città delle streghe) e molto altro.
Mettetevi comodi perché ci aspetta un bel viaggio.
In principio fu il Messico
Il centro di origine del genere Solanum è la regione andina della costa pacifica settentrionale del Sudamerica.
In quest’area, che comprende parti della Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia e Cile, si trovano i parenti selvatici del pomodoro.
Proprio qui, il pomodoro, subì il primo di una serie di bullismi ingiustificati. Le popolazioni locali, infatti, non se lo cagavano di striscio, considerando la pianta quasi una malerba.
A differenza di altre specie autoctone (tipo patate e peperoni), non sono stati trovati resti di pomodoro nei siti archeologici della regione andina. Inoltre, il pomodoro non aveva alcun nome conosciuto in quechua, aymara o in qualsiasi altra lingua della regione andina.
Fu probabilmente in Messico che la specie venne addomesticata e largamente utilizzata. Sappiamo che ne facevano largo uso gli Aztechi.
Citando Fray Bernardino di Sahagún nel suo libro Historia general de las cosas de Nueva España:
“Lo cultivaban, lo vendían y lo consumían”
(“Lo coltivavano, lo vendevano e lo consumavano”).
Origine della parola
Tranne che in Italia, e presto spiegheremo il perché, la parola pomodoro nel mondo è legata al nome che gli diedero gli spagnoli nel 11.532 EU (1532 d.C.): “tomate”.
In inglese è tomato, in portoghese tomate, in francese ancora tomate, in olandese tomaat, in norvegese, svedese e danese tomat, in finlandese tomaatti. Addirittura, anche in arabo e hindi le parole hanno la stessa origine: rispettivamente, tamatim e tamataar.
Gli spagnoli decisero di chiamare così la pianta poiché gli Aztechi si riferivano ad essa con la parola tomatl. Quello che ignoravano è che in nuhatl (nome della lingua azteca), con questo termine ci si riferiva in modo generale a piante con frutti dal portamento sferico con molti semi e polpa succosa.
In quei tempi, la specie più diffusa era Physalis philadelphica, quello che noi chiamiamo tomatillo. Era probabilmente a quello a cui si riferivano gli Aztechi con il termine tomatl.
Il pomodoro era più probabilmente chiamato xitomatl (pronunciato jitomatl).
Tomate? No, pomodoro
Che fosse tomatl o xitomatl, per noi italiani fu completamente indifferente, perché tanto il nome glielo abbiamo completamente stravolto.
Gli esploratori Europei, a partire da Colombo, portarono in Europa tantissime nuove specie. Fra queste anche il pomodoro, che però, inizialmente, non attirò molto l’attenzione.
Dal porto di Siviglia, dove attraccavano le navi del Nuovo Mondo, la pianta si diffuse agli altri paesi europei, inclusa l’Italia.
La prima testimonianza del pomodoro nel nostro paese è di Pietro Andrea Mattioli, che lo descrive, nell’11.544 EU (1544 d.C.), come un frutto verde che, maturando, assume un colore dorato.
Dieci anni dopo, sempre Mattioli, conia il termine “pomi d’oro” (mala aurea), riferendosi al colore delle bacche mature.
Pensateci la prossima volta che sarete in un ristorante rinomato e vi propongono un piatto con datterino giallo confit a 50€. E ricordate allo chef che gli Aztechi tagliavano la testa per molto meno.
La diffidenza verso il pomodoro
Lo sviluppo dei giardini botanici, sia di tipo scientifico che quelli nelle residenze dei nobili, incentivarono lo scambio e la selezione delle nuove specie esotiche. Fra di esse, il pomodoro si adattò bene al clima mite dei paesi mediterranei.
Ma, come abbiamo accennato, il pomodoro ha subito, nel corso della storia, diversi fenomeni di bullismo.
Non solo nel suo luogo di origine: anche in Europa il frutto non fu molto apprezzato.
Sebbene le prime fonti europee, conoscendone l’utilizzo degli Aztechi, specificarono che il frutto fosse commestibile, la sua diffusione in Europa avvenne inizialmente solo come pianta ornamentale.
Le ragioni di questa scelta vanno ricondotte al fatto che alcuni medici e botanici dell’epoca lo descrissero come velenoso. Del resto, il pomodoro non era simile a nessun altro vegetale coltivato e consumato, quindi era difficile immaginarne un uso in cucina e probabilmente l’acidità e il colore del frutto immaturo possono aver giocato un ruolo in questa presa di posizione.
Per esempio, nel 11.597 EU (1597 d.C.), John Gerard, un barbiere/chirurgo e naturalista britannico piuttosto inaffidabile, pubblicò un libro, Generall Historie of Plantes, in cui affermava che il pomodoro era velenoso.
Questa affermazione, secondo diversi storici, insieme alla lontana somiglianza fra pomodoro e la velenosa belladonna (Atropa belladonna), ha fortemente condizionato l’esclusione del pomodoro dalla dieta britannica e americana per circa due secoli.
Il caso di Salem
L’uomo che, secondo la tradizione, riscattò l’onore dei pomodori fu Robert Gibbon Johnson [eng], un agricoltore, storico, orticoltore, giudice, soldato e statista americano che visse a Salem, nel New Jersey.
La storia, molto più una leggenda che un fatto dimostrato, è stata resa popolare prima da Harry Emerson Wildes nel suo libro The Delaware nel 1940 e poi da Stewart Holbrook nel suo libro del 1946, Lost Men of American History.
La storia dice che il colonnello Johnson annunciò alla città di Salem che avrebbe mangiato un pomodoro, chiamato anche pesca del lupo, mela di Gerusalemme o mela dell’amore, sui gradini del tribunale della contea a mezzogiorno.
Quella mattina, nel 11.820 EU (1820 d.C.), circa 2000 persone si radunarono nella piazza del paese. Circa 15 minuti dopo, il colonnello Johnson emerse dalla sua villa e si diresse da Market Street verso il tribunale. La folla applaudiva. Era un uomo dall’aspetto imponente mentre camminava lungo la strada. Indossava il suo solito abito nero con balze bianche, scarpe e guanti neri, cappello a tricorno e bastone.
Al suo fianco, un cesto pieno di pomodori.
Sulla scalinata del Tribunale il colonnello descrisse la storia della pianta e, mentre parlava scelse un frutto dal suo cesto, lo sollevò e cominciò a mangiarlo. La folla si ammutolì. Un boccone dopo l’altro, un frutto dopo l’altro, il colonnello finì il contenuto del suo cesto.
In questo modo dimostrò che non c’era nulla da temere e convinse la popolazione a lasciarsi alle spalle questa irragionevole superstizione.
La rivalsa del pomodoro
Vera o presunta che questa storia sia, dove prima, dove dopo, il consumo del pomodoro si è esteso ovunque negli ultimi 300 anni.
In Italia possiamo vantarci di aver sconfitto questo pregiudizio già nell’11.692 EU (1692 d.C.), data della prima ricetta col pomodoro descritta da Antonio Latini, a Napoli, pubblicata nel libro Lo scalco alla moderna.
La ricetta parla di pomodori “allo stile spagnolo”, cotti insieme a melanzane e zucchine.
Fu proprio in quel periodo che, in Spagna, nacque il famoso gazpacho.
Pensate, gli Aztechi, secoli prima, avevano già messo a punto la ricetta di una salsa preparata con pomodori, peperoncino, cipolle selvatiche e sale. Praticamente la salsa chili in cui si intingono le tortillas.
È proprio vero che la storia insegna ma non ha alunni.
Tornando a noi…
In Asia il pomodoro arrivò molto tardi, soprattutto in Cina, intorno al XVII-XVII secolo. Ironico, se pensate che attualmente l’Asia è di gran lunga il maggior produttore di pomodori, coprendo da sola il 50% della produzione mondiale.
Le varietà di pomodoro
Dalle bacche gialle piccoline importate in Europa all’enorme numero di varietà di forma e colore diverso odierne: ne è passato di tempo.
Il numero di varietà di pomodoro coltivate al giorno d’oggi è enorme.
Il lavoro di conservazione e scambio di semi effettuato dai giardini botanici dell’11.600 EU (1600 d.C.) ha conservato e fornito un’ampia base genetica su cui andare a selezionare.
Su di essa è stato possibile spingere la selezione verso caratteri molto differenti: frutti grandi o piccoli, di forma allungata o tonda, di colore chiaro o scuro, a fioritura tardiva o precoce, buccia spessa o sottile, eccetera.
Pensate anche solo alla differenza fra il classico San Marzano allungato e i pomodorini tipo ciliegino.
Ma facciamo un esempio: consideriamo il colore.
I pomodori sono rossi poiché contengono alte percentuali di licopene. Se si adopera una selezione per gradazioni più chiare, e quindi per piante che producono poco licopene, il colore si sposta sul giallo, poiché a emergere è il colore del β-carotene, il secondo pigmento più comune nel pomodoro.
Ultimamente sono diventate popolari le varietà di pomodoro blu o viola.
I pigmenti interessati, in questo caso, sono gli antociani (che danno il colore alle melanzane o ai mirtilli). Sebbene i pomodori, in genere, posseggano i geni per produrre antocianine, di solito tali geni si esprimono solo in foglie e steli.
Uno dei modi per ottenere queste varietà è stato tramite l’incrocio di varietà commerciali di pomodoro con varietà selvatiche che esprimevano i geni delle antocianine nei frutti.
La Oregon State University ha reso disponibile sul mercato un varietà di nome Indigo Rose. Degna di nota anche la varietà israeliana Black Galaxy e, soprattutto, l’italianissima SunBlack, nata da un gruppo di ricercatori guidato da Gian Piero Soressi e Andrea Mazzucato dell’università della Tuscia.
Esistono anche varietà bianche, come il Great White, popolari soprattutto negli USA, in cui la bassa concentrazione di pigmenti fornisce, a maturazione, un colorito crema.
Conclusione
E se siete arrivati fino alla fine vuol dire che siete dei gran divoratori di pomodoro.
La storia dietro le piante che mangiamo, specialmente di quelle importate, per quanto mi riguarda è interessante quanto l’archeologia. La quantità di aneddoti e di situazioni fortuite che hanno poi avuto implicazioni cruciali nel tempo è enorme e affascinante.
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Fonti e approfondimenti
Prohens J, Nuez F. 2008. Handbook of Plant Breeding. Vegetables II: Fabaceae, Liliaceae, Solanaceae and Umbelliferae, Vol. 2. Springer Science; New York;
Bressanini D. 2019. La scienza delle verdure. La chimica del pomodoro e della cipolla. Editore Feltrinelli, anno 2019
Plant Breeder di mestiere, divulgatore per hobby.
Nato sotto una foglia di carciofo e cresciuto a orecchiette e cime di rape, sono sempre stato interessato alla genetica. Ho studiato biotecnologie agrarie e, dopo un erasmus in Danimarca, ho proseguito con un industrial PhD nella stessa azienda sementiera presso cui stavo scrivendo la tesi. Dal 2019 sono rientrato in Italia e lavoro attivamente come plant breeder, realizzando varietà di ortaggi che molto probabilmente avete mangiato 🙂