L’ossigeno “oscuro”
Un gruppo di ricerca della Scottish Association for Marine Science ha scoperto una sorgente “oscura” di ossigeno negli abissi dell’oceano, dove non batte il sole.
E non si tratta di qualche creatura vivente (so che la vostra fantasia stava già galoppando verso scenari da cinema fantascientifico) ma di… minerali!
Da dove deriva l’ossigeno sulla Terra?
L’ossigeno è una molecola fondamentale per la vita di buona parte degli organismi presenti sulla Terra. Nella nostra atmosfera rappresenta il secondo gas più abbondante, con una percentuale del 21%.
La storia dell’ossigeno nell’atmosfera terrestre
Abbiamo discusso in passato della tossicità dell’ossigeno. Riprendendo l’articolo in breve e concentrandoci solo sui lati positivi, la storia dell’ossigeno nell’atmosfera terrestre è abbastanza intricata: si ritiene che l’atmosfera primordiale contenesse metano, idrogeno, ammoniaca, anidride carbonica, anidride solforosa, vapore acqueo, mentre l’ossigeno era assente.
Per cui, gli organismi che abitavano la Terra all’epoca, non avevano bisogno di questa molecola per vivere ed erano anaerobi (si trattava di batteri e Archea).
Solo circa 2 miliardi e mezzo di anni fa, in un gruppo di batteri noti come Cianobatteri, comparve la fotosintesi ossigenica. Questo processo dipende dall’energia del Sole e produce come sottoprodotto proprio l’ossigeno.
Fu così che pian piano questo gas iniziò ad accumularsi nell’atmosfera e, con la comparsa delle Piante verdi (decisamente più efficienti e complesse dei cianobatteri), la sua percentuale aumentò ancora più rapidamente.
Solo fotosintesi?
Tuttora l’ossigeno viene prodotto da due fonti: sulla terraferma dalle piante verdi e negli oceani da alghe e cianobatteri. Nonostante le foreste siano considerate i polmoni della terra, in realtà oltre il 50% dell’ossigeno che noi respiriamo proviene dagli oceani.
Uno dei tanti motivi per rispettare sempre il mare e i suoi abitanti: è in buona parte grazie a loro se noi sulla Terra possiamo respirare!
Tutti gli organismi produttori di ossigeno svolgono la fotosintesi clorofilliana: sfruttano l’energia del nostro caro amico Sole per trasformare anidride carbonica e acqua in zuccheri e ossigeno (che in realtà si forma come molecola di scarto). Quest’ultimo verrà a sua volta utilizzato dagli organismi aerobi (tra cui noi esseri umani).
Proprio perché la fotosintesi richiede l’energia solare, l’ossigeno proviene dallo strato più superficiale dell’oceano, chiamato zona fotica.
Si tratta dei primi 200 metri circa dalla superficie, in cui la luce può penetrare ed essere quindi utilizzata dagli organismi fotosintetici. Insomma, dalle profondità oceaniche sicuramente non ci aspetteremmo mai la produzione di ossigeno… eppure…
Gli studi di Andrew Sweetman e del suo team
I fondali oceanici della Clarion-Clipperton zone (CCZ), nel Pacifico, ospitano i cosiddetti noduli polimetallici. Si tratta di agglomerati di metalli preziosi (rame, cobalto, manganese, nichel) la cui forma passa dalla sferica alla discoidale e aventi una dimensione estremamente variabile, dal microscopico sino ad arrivare ai 10-12 cm.
Questi noduli possono essere utilizzati per ottenere delle batterie, motivo per cui hanno suscitato l’interesse dell’industria estrattiva che sta sviluppando tecnologie atte a portarli in superficie.
Ovviamente non si può procedere con l’estrazione mineraria senza prima averne valutato accuratamente i possibili impatti sugli ecosistemi.
Ed è proprio per questo che il ricercatore Andrew Sweetman e il suo team stanno studiando da oltre 10 anni i fondali della CCZ. Ma cosa è emerso dai loro studi?
Secondo uno studio pubblicato a metà del 12.023 EU (2023 d.C.) il 90% delle specie scoperte nella CCZ non sono mai state descritte in precedenza: si tratta di oltre 5100 specie su un totale di 6000-8000 specie. Una biodiversità così ricca potrebbe dipendere proprio dalla presenza dei noduli polimetallici.
Ma in che modo questi noduli potrebbero aver favorito l’incremento della biodiversità?
Il mistero dell’ossigeno negli abissi oceanici
Quando i noduli polimetallici sono stati scoperti, i ricercatori non erano ancora a conoscenza del mistero che essi celavano.
Nel 12.013 EU (2013 d.C.), Sweetman stava misurando il flusso di ossigeno nella CCZ. Proprio perché la produzione di ossigeno per via fotosintetica avviene in superficie, ci si aspettava che il flusso di ossigeno spostandosi verso il fondale diminuisse.
Invece, sorpresa delle sorprese, il flusso sembrava pian piano aumentare nonostante l’assenza di organismi fotosintetici nelle vicinanze. Questo risultato sembrava talmente improbabile che venne attribuito a un’anomalia strumentale:
Quando abbiamo ottenuto questi dati per la prima volta abbiamo pensato che i sensori fossero difettosi, perché tutti gli studi condotti nelle profondità marine hanno rilevato solo il consumo di ossigeno e non la sua produzione”, spiega Sweetman, “tornavamo a casa e ricalibravamo i sensori, ma nel corso di 10 anni continuavano a comparire questi strani dati sull’ossigeno
Questa ipotesi fu poi smentita perché lo stesso risultato si ottenne ricorrendo a un metodo di misurazione differente. Valutarono infatti le variazioni nella concentrazione di ossigeno all’interno di una camera bentonica (strumento che raccoglie i sedimenti e permette di analizzare anche il consumo di ossigeno da parte di microrganismi che attuano la respirazione). Anche in questa osservazione, come nella precedente, l’ossigeno in profondità aumentava anziché diminuire:
Abbiamo deciso di adottare un metodo di back-up che funzionasse in modo diverso dai sensori di optode che stavamo usando e, quando entrambi i metodi hanno dato lo stesso risultato, abbiamo capito che eravamo di fronte a qualcosa di rivoluzionario e impensabile.
L’ossigeno può essere prodotto persino nell’oscurità assoluta!
Ma com’è possibile? Se l’assenza di luce a quella profondità impedisce la fotosintesi, a cos’è dovuta la produzione di ossigeno?
I noduli metallici come sorgente “oscura” di ossigeno
Secondo il gruppo di ricerca, la produzione di ossigeno avviene a opera dei noduli polimetallici. Da diversi test di laboratorio è infatti emerso che essi sono in grado di produrre ossigeno attraverso un processo diverso dalla fotosintesi e che prende il nome di elettrolisi: i noduli generano una piccola corrente elettrica che scinde le molecole d’acqua in idrogeno e ossigeno.
Questi noduli si comportano quindi come una “geobatteria” in grado di generare una corrente di circa 1 volt ciascuno. Per questo motivo rappresentano un tesoro per l’industria elettronica che deve rispondere alla crescente richiesta di circuiti elettronici e batterie. Sapere però che la loro utilità va ben oltre la produzione di auto elettriche e smartphone cambia un po’ la situazione…
Tra dubbi e perplessità
Questa strabiliante scoperta ha fatto sorgere ulteriori dubbi e interrogativi: come si genera precisamente la corrente elettrica da cui prende avvio l’elettrolisi? Si tratta di una reazione continua? L’elettrolisi è in grado di sostenere un intero ecosistema?
Ovviamente c’è chi ha colto la palla al balzo, facendo leva proprio su queste perplessità, per mettere in discussione i risultati ottenuti. Non è un caso, infatti, che le contestazioni derivino proprio dal mondo dell’industria estrattiva.
Un esempio lampante è rappresentato da Patrick Downes della The Metals Company (una compagnia di estrazione mineraria che lavora nelle stesse zone studiate da Sweetman), il quale è convinto che i risultati ottenuti siano dovuti alla contaminazione di ossigeno da fonti esterne. Downes ha espresso infatti l’intento di produrre il prima possibile un articolo che smentisca la teoria sostenuta da Sweetman e dal suo team. Insomma, poco agguerrito!
Conclusioni
Al di là dei dubbi da risolvere e delle domande ancora senza risposta, è fondamentale riflettere su come estrarre questi materiali in modo da non esaurire la fonte di ossigeno per la vita marina più profonda.
Proprio per tutelare gli ecosistemi marini dallo sfruttamento industriale, oltre 800 scienziatɜ di 44 paesi diversi hanno firmato una petizione che evidenzia i rischi ambientali e la necessità di una pausa dall’attività mineraria.
Di seguito trovate anche un video che spiega come la corsa all’estrazione mineraria in acque profonde rappresenti una minaccia per il nostro pianeta.
Nel frattempo, gli studi sui noduli polimetallici stanno proseguendo con l’obiettivo di riuscire a fare chiarezza su quei dubbi che tormentano i ricercatori (e d’ora in poi anche voi che state leggendo questo articolo). Anche perché, siamo sicuri che sia stata la fotosintesi e non i noduli polimetallici ad aver innescato la vita sulla Terra? E questi noduli potrebbero essere presenti anche su altri pianeti? Lo scopriremo solo vivendo (grazie all’ossigeno).
Fonti
Andrew K. Sweetman et al. (2024). Evidence of dark oxygen production at the abyssal seafloor. Nature geoscience.
Ho conseguito la laurea triennale in scienze biologiche e la laurea magistrale in scienze biosanitarie, curriculum nutrizionistico, all’università di Bari “Aldo Moro”. Amo la biologia in ogni sua sfaccettatura con un occhio di riguardo per l’ambiente e la nutrizione. Ho scelto di fare divulgazione per trasmettere agli altri la mia passione e per far comprendere l’importanza della scienza, spesso sottovalutata. Il mio motto è “Nulla di grande nel mondo è stato fatto senza passione”.