SCIENZEULTIMI ARTICOLI

La forza della farina

Quando al supermercato si finisce davanti allo scaffale della farina, è lecito cadere nel dubbio su quale pacco sia meglio acquistare per lo scopo che ci siamo posti. Farina 0, farina 1, farina integrale… sembra quasi sia necessaria un’approfondita conoscenza informatica del codice binario o un dottorato in analisi matematica per sceglierla. Insomma, se prendo un pacco di farina 00, otterrò un buon risultato sia che decida di farci dei biscotti o sia che opti per un panettone? Cos’è la forza della farina?

Vediamo di capirci qualcosa… ma partiamo da dove tutto ha inizio!

Identikit del grano

Con il termine “grano” si designano tutte le piante appartenenti al genere Triticum della famiglia delle graminacee. Questo termine deriva dal latino granum, la cui radice indoeuropea gar- starebbe ad indicare l’atto del triturare e dello scorticare. Un sinonimo di grano è “frumento”, parola magnifica in quanto solo nel pronunciarla si sviluppano tutti quei suoni che ricordano il passaggio del vento tra le spighe, il dolce scorrere dei chicchi gli uni sugli altri e la frantumazione degli stessi per ricavarne la farina.

Ma bando ai romanticismi e riassumiamo la nostra fredda mentalità scientifica. Com’è fatto il grano?

Partiamo dal basso. La radice del grano è fascicolata, cioè siamo in presenza di un fascio di radici non ramificate che si dispongono a raggiera intorno al fusto. Quest’ultimo, nel caso delle graminacee, si chiama culmo ed è costituito da nodi (da cui partono le foglie) e da internodi (le porzioni comprese tra due nodi successivi). Le foglie, disposte sui nodi del culmo con disposizione alternata, sono costituite da una parte chiamata guaina, che avvolge completamente il culmo, e da una parte detta lamina parallelinervia, porzione distale della foglia. L’infiorescenza è una spiga costituita da un asse principale, il rachide, da cui partono delle spighette contenenti i fiori racchiusi tra due glumette. Praticamente una matrioska russa.

 

Tavola botanica del Triticum
Tavola botanica del Triticum aestivum. Fonte

Ma i chicchi dove stanno? Beh… prima l’ovario del fiore deve essere fecondato (suvvia, non fatemi tirare fuori la storia dell’apina), dopodiché si ingrosserà e darà origine alla cariosside, il frutto secco che forma un tutt’uno con il suo unico seme.

Nella cariosside (o chicco) possiamo distinguere tre parti:

  • Un involucro esterno, chiamato crusca;
  • Una riserva energetica composta prevalentemente da amido, chiamata endosperma;
  • Un embrione che darà origine alla nuova pianta, chiamato germe di grano;
Componenti di un chicco di grano. Fonte

Come si fa la farina?

Te lo spiegherò brevemente. I chicchi vengono ridotti in farina sfruttando generalmente la macinazione a cilindri, processo che prevede la rimozione del germe e della crusca e la macinazione dell’endosperma in fasi successive, fino all’ottenimento del tipo di farina desiderato. Nel dettaglio, i chicchi vengono prima rotti in un laminatoio nei suoi componenti principali (crusca, farine, prodotti intermedi), poi questi componenti vengono fatti passare in delle macchine chiamate “plansichter”, le quali hanno il compito di selezionarli e separarli. A questo punto, le frazioni più grossolane subiscono un ulteriore passaggio attraverso i laminatoi, mentre gli altri sottoprodotti vengono destinati ad altre macchine (semolatrici, finitrici di crusca). Le farine ottenute nei vari passaggi vanno subito stoccate all’interno dei silos.

Un mulino dal sapore vintage. Fonte

Che tipi di farina esistono?

La farina di grano tenero (Triticum aestivum) viene classificata in base al contenuto di ceneri, ovvero di tutto ciò che rimane dopo aver bruciato una certa quantità di farina (essenzialmente minerali e loro ossidi). Dal momento che questi minerali si trovano in maggior parte nella crusca, ne deriva che una farina con un basso contenuto di ceneri è più raffinata. Provate anche voi a casa a dare fuoco ad un pacco di farina: mal che vada evocherete un demone della tradizione rurale che vi punirà per lo spreco alimentare che avete appena causato. Scherzo, non fatelo. Vi sono altri parametri da tenere in considerazione per la loro commercializzazione: un contenuto minimo di proteine, la cui soglia aumenta al diminuire della raffinazione del prodotto, e un’umidità massima, che per tutte le farine è del 14,50%. Questi parametri sono definiti dal DpR 187 del 9 febbraio 2001. [1]

 

Classificazione delle farine di frumento tenero in base al DpR 187 del 9 febbraio 2001.

Analogamente, le farine di grano duro (Triticum durum) sono soggette alla seguente classificazione:

 

Classificazione delle farine di frumento duro in base al DpR 187 del 9 febbraio 2001.

Si noti che per ogni tipologia di farina l’umidità consentita può essere estesa fino al 15,50% se indicato in etichetta.

La forza della farina

Ok, tutto molto bello. Non vedevo l’ora di leggere delle tabelle! Ma nella pratica come faccio a scegliere quale tipo di farina mi serve? Io questo week end voglio fare la pizza in casa e magari qualche biscotto, ma andrà bene il pacchetto di farina che ho già in casa? Intendo quello abbandonato a sé stesso nell’angolo della dispensa dopo che ho fatto razzie al supermercato in prossimità del lockdown di marzo 2020…

Per risponderti, occorre prendere in considerazione dei parametri chimico-fisici. Esiste uno strumento chiamato “alveografo di Chopin”, che al contrario di quello che potete pensare a primo impatto non si suona, ma è in grado di fornire un parametro molto utile ai panificatori professionisti: la forza della farina W. In parole povere è un indice della capacità di assorbire acqua durante la fase di impasto e trattenere l’anidride carbonica durante la lievitazione.

Bolla di dischetto di impasto sottoposto ad insufflamento d’aria nell’analisi alveografica. Fonte

Per poter determinare questo parametro bisogna miscelare nell’impastatrice dell’alveografo, per un tempo stabilito, 250g di farina con una soluzione acquosa di cloruro di sodio al 2.5%, la cui quantità dipende dall’umidità di partenza della farina. L’impasto verrà poi estruso e si otterranno 5 dischetti delle stesse dimensioni che andranno lasciati riposare a 25° C per 20 minuti. Trascorso il tempo necessario, i dischetti di impasto vengono riposti uno per volta sulla piastra alveografica e sottoposti a rigonfiamento per insufflamento d’aria fino a rottura della bolla.

Questo passaggio ha la funzione di riprodurre la formazione di anidride carbonica durante la lievitazione.

Durante il rigonfiamento, un manometro misura la pressione P in funzione dell’estensione dell’impasto L e traccia un grafico, l’alveogramma. Osservando l’alveogramma possiamo notare che la pressione sale all’inizio velocemente fino ad un massimo (più è alto, più l’impasto è tenace), poi diminuisce con la dilatazione della bolla, in quanto incominciano a formarsi microfratture e pori sulla superficie, infine cade rapidamente in corrispondenza della rottura della bolla.

Maggiore è il tempo impiegato dalla bolla per rompersi, maggiore sarà l’estensibilità dell’impasto. Il valore ottimale è dato da un rapporto P/L compreso tra 0.40 e 0.70, poiché al di sotto di 0.40 si avrà un impasto molto estensibile e colloso, mentre al di sopra di 0.70 si avrà un impasto eccessivamente tenace e difficile da lavorare. [2]

Esempio di due alveogrammi sovrapposti (uno chiaro ed uno scuro), dove è possibile notare come l’alveogramma scuro mostri valori di tenacia, estensibilità e forza della farina maggiori. Fonte

La forza W corrisponde all’area sottesa alla curva dell’alveogramma e viene espressa in decimillesimi di Joule… Cosa? Una forza espressa con l’unità di misura dell’energia? Ma perché sti scienziati creano sempre confusione? Facciamo le cose per bene e consideriamola come “l’energia necessaria a far gonfiare la bolla dell’impasto”.

Maggiore è il suo valore, maggiore sarà il contenuto di proteine (glutine) della farina e quindi la sua capacità di assorbire acqua, in quanto il glutine è in grado di assorbire acqua per una volta e mezza il suo peso. Di conseguenza si avrà una maglia glutinica più resistente e una lievitazione più lunga. In genere si effettua una media dei dati ottenuti dai 5 dischetti.

Come scegliere la farina?

In linea di massima la classificazione delle farine in base al loro indice W è:

  • Fino a 170 W – Farine Deboli (biscotti, cialde, grissini);
  • Da 180 ai 260 W – Farine Medie (pasta, pasta sfoglia, pane a pasta dura);
  • Da 280 ai 350 W – Farine Forti (pane, pizza, brioches);
  • Oltre i 350 W – Farine speciali (usate per rinforzare farine più deboli o per creare dolci a lunga lievitazione come panettoni o pandori). [3]

Il problema è che questo valore non è sempre presente sulle confezioni di farina ad uso casalingo, in quanto storicamente è sempre interessato maggiormente ai professionisti. Tuttavia vi basta sapere che il valore del loro indice W varia da 150 a 250 e, nel caso dovesse servirvi una forza maggiore, potete miscelarle con della farina Manitoba, il cui indice W oscilla dai 350 ai 400.

Ma c’è un altro modo.

Ho detto poco fa che all’aumentare della forza corrisponde un aumento del contenuto proteico… e quest’ultimo è SEMPRE indicato sull’etichetta dei valori nutrizionali! Regoliamoci sfruttando i seguenti parametri di massima:

  • 8-9% di proteine – Farine deboli;
  • 10-12% di proteine – Farine medie;
  • 13-14% di proteine – Farine forti;
  • Oltre il 14% di proteine – Farine speciali. [3]

Consiglio di effettuare il confronto preferibilmente tra farine dello stesso tipo, in quanto una farina integrale avrà certamente un contenuto proteico maggiore rispetto ad una 00 in virtù della presenza di crusca e di germe del grano, ma questo surplus proteico non è costituito solamente dal glutine, dunque non è detto che dimostri un indice di panificabilità più alto.

Fonti

[1] Decreto del Presidente della Repubblica 9 febbraio 2001, n. 187

[2] Dough Rheology, B. J. Dobraszczyk, The University of Reading, Reading, UK

[3] https://www.molinosquillario.it/approfondimenti/forza-farina-scegliere-farine-impasti/

Angelo Ermelindo

Da bambino volevo fare il paleontologo. Da adolescente il fisioterapista. Oggi mi ritrovo con una laurea magistrale in Scienze Chimiche, ma non chiedetemi come abbia maturato questa scelta. Fatto sta che ora lavoro come analista chimico. E anche se non sono diventato un paleontologo, la curiosità del bambino per indagare sulle origini di tutte le cose non mi ha mai abbandonato. Nel tempo libero pratico arti marziali (e vado dal fisioterapista).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *