Immagini digitali, concetto astratto o qualcosa di molto concreto?
La tecnologia progredisce molto in fretta, questo è un dato di fatto di cui tutti abbiamo esperienza diretta. I nostri telefoni pagati fior fior di danari sono sottoposti a quella che si chiama “obsolescenza programmata” e il televisore al plasma che abbiamo comprato dieci anni fa considerandolo il top di gamma oggi probabilmente è un catorcio senza speranza.
Gli informatici avranno sicuramente sentito parlare della “legge di Moore“, in cui Gordon Moore (uno dei fondatori della Intel) evidenziava come il numero di micro-processori in un circuito integrato raddoppiasse in media ogni due anni, rendendo di fatto la crescita della potenza dei dispositivi esponenziale. Moore parlava soltanto dei processori, ma la sua “legge” si può applicare a molteplici campi della tecnologia.
Come si evolve la tecnologia?
I clienti di ogni categoria, si sà, sono incontentabili. Le foto da mettere su Instagram le vogliamo sempre più definite e luminose e i film li vogliamo vedere sempre più nitidi in modo da contare i peli della barba di Aragorn, e per questo i produttori di tecnologie frustano i loro dipendenti investono molto nei reparti di ricerca e sviluppo.
Le migliorie che accompagnano anno dopo anno i nostri dispositivi possono essere di varia natura, dalla scoperta di una lega metallica leggermente più performante a un modo furbo di migliorare gli algoritmi del codice sorgente, tuttavia per effettuare il vero salto di qualità a volte non basta migliorare qualcosa di già esistente ma bisogna pensare in modo diverso dallo standard.
Nel titolo ho utilizzato il termine rivoluzione perché il viaggio che stiamo per intraprendere non passa da un semplice upgrade delle vecchie macchine, ma dia un cambio di approccio totale nell’elaborazione dell’immagine.
La costruzione delle immagini – i televisori a tubo catodico
Voglio porre la vostra attenzione su una questione che tutti i nostri lettori sopra i 15-16 anni hanno vissuto in prima persona, probabilmente non facendoci troppo caso.
Mi riferisco al grande salto della digitalizzazione delle immagini
Scattare una fotografia col telefono o guardare una TV o utilizzare un monitor del PC sono attività che facciamo tutti i giorni, ma vi ricordate quando i televisori erano a tubo catodico? Gli schermi erano ben lontani da essere piatti, poiché contenevano un meccanismo molto ingegnoso necessario a comporre l’immagine sullo schermo.
All’interno di quel sederone pesante c’era un vero e proprio tubo con all’interno una sorgente di elettroni. Il vetro dello schermo, inoltre, non era semplice vetro ma era una superficie “fotosensibile”, cioè una superficie in grado di reagire agli elettroni che la colpivano.
Avete già capito come funziona la faccenda vero?
Il vostro pittore personale
Per costruire l’immagine, il tubo catodico era in grado di regolare esattamente dove gli elettroni dovevano essere sparati. I punti in cui un elettrone andava a sbattere risultavano brevemente illuminati, quelli non colpiti da alcun elettrone rimanevano invece neri. Dal momento che la sorgente era in grado di sparare elettroni ad una frequenza abbastanza alta da formare diverse immagini al secondo, il nostro occhio poteva gustarsi Mike Buongiorno che chiedeva di lasciare o raddoppiare.
Per introdurre il colore ci fu bisogno di un miglioramento dell’hardware: lo schermo fotosensibile era infatti reso tale dalla presenza di un reagente detto fosfòro (NB l’accento è sulla penultima o, da non confondere con il fòsforo che è l’elemento chimico, e che di per sé da solo non è un fosfòro, ma che ha comunque dato il nome ai fosfòri. Uno di quei casini dove alla fine qualcuno finisce ammazzato).
Utilizzando diversi tipi di fosfòri si ottenevano luminescenze di colori differenti, ma come essere sicuri di “colpire” il fosfòro giusto? Attaccata allo schermo si trovava una griglia molto sottile tutta forata, detta maschera di separazione.
Questa griglia aveva proprio la funzione di accertarsi che, in base all’angolo di arrivo dell’elettrone, il colore fosse quello desiderato.
Se avete ancora in caso un vecchio televisore a tubo catodico osservatelo molto da vicino, la griglia in molti casi risulta leggermente visibile dietro lo schermo.
La costruzione delle immagini – i televisori digitali
Gli schermi in utilizzo a partire dagli anni 2000 invece, che siano al plasma, a cristalli liquidi o a LED, utilizzano un approccio completamente differente.
Lo schermo viene infatti diviso in dei piccoli rettangolini detti PIXEL, tutti separati uno dall’altro e quindi “accendibili” separatamente. La differenza tra i vari tipo sta nel modo in cui vengono eccitati i pixel.
Il televisore a plasma, ad esempio, tiene al suo interno delle celle cariche di gas nobili in uno stato inerte, che all’occorrenza vengono eccitati dalla corrente elettrica trasformandoli momentaneamente in plasma, da cui il nome dell’apparecchio stesso!
Rispetto al funzionamento del tubo catodico, il concetto è completamente differente!
Cosa cambia rispetto alla vecchia metodologia?
Nel primo approccio infatti lo schermo viene “percorso” tutto dal tubo catodico, e pezzetto per pezzetto la sorgente decide se sparare o meno l’elettrone in una certa direzione. Potete immaginare un pittore che spennella di elettroni lo schermo staccando il pennello nei punti in cui non vuole dipingere.
La metafora non è casuale, infatti l’apparato all’interno della TV veniva chiamato anche pennello elettronico.
Una volta finito il giro, il pittore (la sorgente) ricomincia.
Nell’approccio digitale invece ci stiamo chiedendo istante per istante “quali pixel devo accendere?”, con un procedimento a priori.
Può sembrare simile, ma non è così e i vantaggi sono veramente molti. Per fare un esempio, pensate di registrare un elenco di nomi su di un nastro e di doverne ascoltare il terzo, il quinto e il decimo.
Siete costretti ad aspettare che il nastro scorra fino ad arrivare a ciò che volete. Se il vostro elenco di nomi è invece scritto su un foglio numerato potete risparmiarvi la lettura di tutti i nomi che non vi interessano, vi basta guardare ciò che c’è scritto a fianco ai numeri giusti!
La cattura delle immagini – le fotografie
Qualcosa di simile, anche se non identico, è avvenuto anche nella fotografia.
La vecchia fotografia analogica era basata sulla capacità dell’apparecchio di catturare la luce riflessa dall’ambiente circostante e impressionare tramite questa una lastra (originariamente una vera e propria lastra, poi sostituita dal più pratico rullino di pellicola fotosensibile).
Un po’ come per le vecchie TV, questo approccio era di tipo “continuo” e impressionava la lastra creando una copia dell’immagine detta “negativo”, con la quale poi attraverso un procedimento chimico si potevano ottenere una o più copie dell’immagine catturata.
Data la sua natura, questo approccio era estremamente preciso. La figura catturata era infatti esattamente quella che si presentava alla vista!
Anche questo mondo, precisione o no, ha dovuto cedere il passo ai nostri diabolici piccoli amici pixel.
Le fotocamere moderne, quelle digitali, catturano ancora la luce con dei sensori ma invece di usarla per impressionare fisicamente un supporto fotosensibile trasformano immediatamente tutto in una tabellina di numeri.
Immagini digitali: il mondo in una tabella (o forse…)
Come si trasforma una immagine in una tabella di numeri?
Per iniziare abbiamo bisogno di avere tante caselle quanti sono i pixel in cui l’apparecchio è stato in grado di dividere l’immagine. Questo è il concetto di risoluzione! Più pixel riusciamo ad avere, più l’immagine sarà fitta e quindi fedele all’originale.
In ogni cella troviamo un numero che indica “quanta” luce bisogna riprodurre. Solitamente i numeri vanno da 0 a 255 (oh stop it you codice binario!) e illuminando di più o di meno i pixel possiamo ottenere la nostra immagine in scala di grigio.
E per i colori?
Chiunque abbia smanettato un po’ con paint da ragazzino si sarà trovato a cercare proprio quel colore perfetto per colorare l’automobile appena disegnata o la casetta con sopra gli uccellini. In questa frenetica ricerca vi siete sicuramente imbattuti in quella schermata con 3 levette da spostare, corrispondenti alla quantità di rosso, blu e verde da mescolare (sistema RGB, Red-Green-Blue).
Ebbene la tabellina che ho millantato poco fa in realtà sono 3 tabelline distinte, una per colore “primario”. Quando accedete al file contenente l’immagine il vostro computer/telefono/tablet le esamina all’istante, illuminando e colorando lo schermo in modo da poter rivedere quel selfie.
Quello con l’amico addormentato.
A cui avete scritto DEFICIENTE col pennarello indelebile sulla fronte.
Che momenti magici.
La differenza principale quindi è in sostanza questa: l’immagine digitale non esiste finché qualcuno non vi accede. Fino a quel punto esiste soltanto una lunga serie di numeri. Quando chiedete al dispositivo di visualizzare l’immagine, è compito suo accendere i pixel dello schermo nel modo corretto.
Matematico per passione, dopo essermi laureato all’Università la Sapienza di Roma mi hanno spiegato che la matematica non è un lavoro vero e mi tocca guadagnarmi da vivere come consulente contro le frodi. Fortemente convinto che potremmo già avere i jetpack e le macchine volanti per uso comune, ho abbracciato la Missione Scienza nel 2016. Scrivo principalmente di matematica (ufficialmente argomento più noioso del terzo millennio) e occasionalmente di fisica, tecnologie e informatica.
Matematico per passione, dopo essermi laureato all'Università la Sapienza di Roma mi hanno spiegato che la matematica non è un lavoro vero e mi tocca guadagnarmi da vivere come consulente contro le frodi. Fortemente convinto che potremmo già avere i jetpack e le macchine volanti per uso comune, ho abbracciato la Missione Scienza nel 2016. Scrivo principalmente di matematica (ufficialmente argomento più noioso del terzo millennio) e occasionalmente di fisica, tecnologie e informatica.
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