Il paradosso di Peto nella lotta al cancro

La lotta al cancro e il paradosso di Peto

La lotta ai tumori è, senza dubbio, una delle sfide più grandi per la ricerca medica degli ultimi decenni. Con il passare degli anni, si sono compresi molti dei meccanismi che portano l’insorgenza di questa devastante malattia. D’altra parte è anche vero che più se ne studiano le cause e più ci rendiamo conto che abbiamo ancora tanto da comprendere sullo sviluppo del cancro.

D’altronde, da sempre la ricerca medica ha mosso i suoi piccoli passi proprio grazie all’ignoto. I grandi dubbi e i paradossi ne stimolano da sempre il progresso e la perseveranza nella comprensione di come funziona il nostro corpo.

Si iniziò a parlare molto più assiduamente dei tumori e delle loro possibili cause già nel lontano ‘700, quando il medico John Hill, nel 1761, associò l’aspirazione del tabacco alle cause di cancro al naso. Nei secoli a venire, la ricerca e la conoscenza hanno fatto passi da gigante. Di contro, anche la prospettiva di vita media dell’essere umano è cresciuta di molto, motivi per cui, negli ultimi decenni, la ricerca ha rivolto gran parte dei suoi sforzi alla lotta contro il cancro, che ha iniziato via via a diventare sempre più incidente nelle popolazioni [1].

Negli ultimi decenni, il paradosso di Peto fu uno dei trampolini di lancio più importanti verso la comprensione di meccanismi biologici ancora ignoti, che regolano l’insorgenza dei tumori. Negli anni ’70, l’epidemiologo inglese Richard Peto ha messo luce su un problema tutt’altro che banale, ma che comunque era sotto gli occhi di tutta la ricerca scientifica contro il cancro. Sostanzialmente, Richard Peto fece notare come, nel corso della loro vita, l’uomo e il topo corrano lo stesso rischio di sviluppare un tumore, quando invece non dovrebbe essere così [2].

Richard Peto
L’epidemiologo britannico Richard Peto

In che senso “non dovrebbe essere così”?

Per capire meglio il paradosso proposto da Richard Peto, cerchiamo prima di capire cosa è un tumore.

Cosa è il cancro?

Il nostro organismo è costituito da migliaia di miliardi di cellule. Le cellule sono i mattoncini che compongono i tessuti e gli organi del nostro bellissimo corpo. Ogni cellula, in realtà, ha una vita propria, dei compiti ben precisi, si relaziona in un certo modo con le cellule vicine, cresce, si muove, si iscrive all’università, si stressa, paga le bollette, ma soprattutto si riproduce, si moltiplica, creando delle copie di se stessa.

Probabilmente, da quando hai iniziato a leggere questo articolo, qualche centinaia di nuove cellule si sono formate all’interno del tuo corpo, con lo scopo di sostituirne altre già invecchiate, oppure, ad esempio, per riparare un piccolo danno. Fatto sta che la moltiplicazione cellulare all’interno del nostro corpo è altamente controllata e deve avvenire unicamente per il beneficio dell’intero organismo. Ogni singola cellula, per cui, deve riprodursi per un determinato scopo ed in un momento ben preciso. Qualche volta può capitare che questi meccanismi regolatori non funzionino come dovrebbero e, nella maggio parte di questi casi, la cellula ha comunque il modo di capire di avere qualcosa che non va, per cui decide di suicidarsi o di farsi ammazzare dal sistema immunitario, pur di non recare danno all’intero organismo [3].

Sì esatto, migliaia di cellule ogni giorno sacrificano la loro vita per te, perciò smettila di lamentarti che la tua vita fa schifo.

Tornando ai tumori, questi insorgono nel momento in cui quella singola cellula, o comunque quel piccolo gruppo di cellule, accumula una serie di danni senza accorgersene, al punto da arrivare a non capire più di essere una cellula sbagliata e continuare a crescere come se nulla fosse. Che tipo di danni? Spesso si tratta di mutazioni, cambiamenti all’interno delle sequenze del DNA che dettano ciò che la cellula dovrebbe fare. A quel punto, la cellula potrebbe iniziare a mutare più volte. Questo potrebbe portarla a triplicare la sua crescita, accumulare scarti tossici per l’organismo, “rubare” le sostanze nutritive alle altre cellule e “nascondersi” al sistema immunitario dell’organismo. Il terribile risultato è la crescita incontrollata di una parte di quel tessuto, oramai tumorale, che purtroppo arriva spesso ad invadere e danneggiare a sua volta altre strutture vitali dell’organismo [4].

Rappresentazione di come il tumore inizia a crescere, richiamare a se nutrienti e invadere i tessuti circostanti

Ma come inizia tutto? Come e perché una cellula inizia ad impazzire dando vita ad un tumore?

Le basi del paradosso

Abbiamo visto che spesso tutto nasce da una o poche cellule danneggiate, che continuano a crescere. Per cui, sono due i fattori che danno i presupposti per lo sviluppo di un tumore: la dimensione dell’organismo e la longevità. Nel dettaglio: 1) il numero di cellule di un organismo (dal momento che ogni singola cellula potrebbe potenzialmente iniziare a mutare); 2) la longevità di quell’organismo, in quanto serve del tempo per far sì che i danni si accumulino all’interno di quella singola cellula. Serve altrettanto tempo per far sì che questi danni la portino poi alla moltiplicazione incontrollata.

Dal primo punto ne deriva che più un organismo è grande, quindi costituito da più cellule, più probabilità ha di sviluppare una cellula mutata. Questo perché ha più cellule candidate a sviluppare una o più mutazioni. Alcuni studi sull’uomo hanno dimostrato che persone di più alta statura potrebbero essere più a rischio di sviluppare alcuni tipi di cancro [5]. Chiaramente, questo tipo di studi variano in base alla popolazione ed in base al tipo di cancro. Idealmente una persona molto alta ha più cellule rispetto ad una di statura media o bassa. Per cui una persona di alta statura avrebbe più cellule che, se mutate, possono potenzialmente svilupparsi in un tumore.

Il secondo fattore è il tempo

Una volta mutata, quella cellula ha bisogno di tempo per accumulare più mutazioni dannose. Per cui individui più longevi dovrebbero essere più soggetti a rischio di sviluppare il cancro. Infatti, una gran parte dei tumori dell’uomo ha insorgenza dopo i 50 anni, proprio perché, appunto, un’ipotetica singola cellula mutata ha avuto più tempo per accumulare mutazioni deleterie, perdere il controllo di se stessa, moltiplicarsi, sclerare male e diventare così un tumore a crescita incontrollata [4, 6].

Ma cosa succede se ragioniamo al di fuori della nostra specie?

Il paradosso di Peto nelle diverse specie

Richard Peto notò che l’uomo e il topo corrono lo stesso rischio di sviluppare un tumore durante la loro vita. Eppure non dovrebbe essere così: rispetto all’uomo, il topo ha molte meno cellule che potrebbero da un momento all’altro iniziare ad accumulare danni; inoltre, la vita di un topo può durare al massimo 4 o 5 anni. Un topo da laboratorio vive per molti meno anni rispetto a noi, dunque le sue cellule dovrebbero avere meno tempo per accumulare mutazioni dannose. In poche parole, il topo dovrebbe avere una minore prevalenza di cancro rispetto all’uomo, ma non è così.

Richard Peto a quel punto si domandò se questa incoerenza fosse riscontrabile anche analizzando la prevalenza dei tumori in popolazioni di alcune specie di elefanti e balene. Diversi studi dimostrarono che l’incidenza del cancro negli esseri umani è uguale a quella delle balene, nonostante il fatto che una balena abbia molte più cellule di un essere umano. Se la probabilità di carcinogenesi fosse costante e proporzionale al numero di cellule e all’età, ci si aspetterebbe che le balene avessero una maggiore incidenza di cancro rispetto agli esseri umani, ma anche qui non è così [7].

Uno schema del paradosso di Peto. Il grado di prevalenza dei tumori osservato nelle diverse specie è piuttosto simile (verde). Al contrario, la prevalenza attesa in arancione, che accade invece solo all’interno della stessa specie.

La prevalenza di cancro aumenta sì, con l’aumentare del numero di cellule e con l’età, ma, a quanto pare, questo è un discorso che vale solo all’interno di una stessa specie.

Alcuni studi sui cani hanno dimostrato che l’incidenza di cancro è minore nelle razze più piccole [8], così come per gli studi nell’uomo sulla statura e molti altri [5]. Nel momento in cui si ragiona al di fuori della stessa specie, questo discorso non vale più. Animali più grossi e longevi di noi non hanno la prevalenza di cancro che dovrebbero avere. Nonostante le loro dimensioni, quantità di cellule ed età, la loro probabilità di sviluppare cancro è molto minore di quanto dovrebbe essere, in fin dei conti paragonabile a quella di specie di dimensioni più piccole.

Possibili soluzioni al paradosso di Peto

Sono state studiate e proposte diverse soluzioni al paradosso di Peto; le più valide riescono a spiegare in parte come l’evoluzione abbia selezionato dei meccanismi nelle diverse specie per contrastare lo sviluppo del cancro. Lo stesso Peto propose che, probabilmente, le motivazioni evolutive sono responsabili della variazione dei tassi di carcinogenesi per cellula nelle varie specie [9].

Tra le più importanti ricerche che hanno cercato di dare una soluzione al paradosso, troviamo molti studi genetici. Un articolo pubblicato su Cell parla di particolari geni nella balena della Groenlandia, che possono essere associati alla longevità [10]. Qualche anno fa, altri studi hanno dimostrato che gli elefanti hanno nel loro genoma 20 copie del gene soppressore tumorale TP53, che codifica per un importante proteina che nelle cellule regola il ciclo cellulare, mentre gli esseri umani e gli altri mammiferi hanno solo una copia del gene [11].

Altri studi si sono concentrati sul differente metabolismo e sulle dimensioni delle cellule nelle diverse specie. Un articolo del 2014 ha messo in luce una relazione sottovalutata tra dimensione delle cellule, metabolismo e tassi di divisione cellulare tra le specie. L’articolo conclude che probabilmente gli organismi più grandi potrebbero avere cellule più grandi, che si dividono lentamente e con minore dispendio energetico, riducendo in modo significativo il rischio di insorgenza del cancro [12].

Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che negli animali più grandi, una volta comparsa la prima cellula mutata, ci siano effettivamente più cellule buone che possano in qualche modo sopprimere la crescita della cellula cattiva. Questo potrebbe spingere la ricerca nella comprensione dei meccanismi che vengono coinvolti nel contatto tra cellula sana e tumorale [13].

Conclusioni

Restano ancora molte lacune da colmare nella risoluzione del paradosso, tra le quali spiegare come sia possibile che animali più piccoli sviluppino più cancro di quanto dovrebbero. Al giorno d’oggi, gran parte degli studi di oncologia comparativa è stata condotta sui topi. Ad oggi il topo è sempre stato considerato il miglior organismo modello per gli studi comparativi sull’uomo. Guardando al paradosso, però, sappiamo che potrebbe essere un modello non così affidabile per certi aspetti. Risolvere il paradosso significherebbe, innanzi tutto, riuscire a cercare altrettante risposte sul funzionamento dei tumori e migliorarne le terapie, focalizzando la ricerca su dettagli finora trascurati, ma che possono fare la differenza.

Mirko Baglivo

Mi sono laureato in Biotecnologie a Parma, poi ho conseguito la Laurea Magistrale in Biotecnologie Mediche a "La Sapienza" Università di Roma. Attualmente mi occupo di ricerca nell'ambito della genetica medica. Partecipo al progetto Missione Scienza dal 2017, spacciandomi per finto divulgatore della scienza e contribuendo nell'aspetto grafico e visivo.

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