I nomi dei colori – caso o necessità?

I nomi che diamo ai colori non sono affatto scontati.

Dopotutto, la nostra lingua (come tutte le lingue nel mondo) è solo una grande lista di convenzioni.

Perché i nomi dei colori sono quelli che sono? Sono una componente universale di ogni lingua?

Cerchiamo di vederci chiaro.

Per quanto nella nostra testa i colori si suddividano in categorie molto ben definite, lo spettro della luce che i nostri occhi riescono a percepire varia in maniera continua, senza nessuna divisione netta fra i vari colori.

Il fatto che questo spettro vari in maniera continua è contemporaneamente fantastico ed estremamente problematico. Da un lato le infinite tonalità possibili sono una grossa componente della variabilità e della bellezza del mondo che ci circonda. Dall’altro è estremamente difficile descrivere in maniera assoluta ogni colore, e spesso la definizione dei colori è estremamente relativa e soggettiva.

Nella lingua italiana sono definiti in maniera canonica più di 200 colori differenti, e tutti possono essere collegati a 11 categorie di colori base (inclusi bianco e nero) da cui si diramano le varie sfumature.

Monolessemi e polilessemi.

In molti casi una specifica sfumatura di colore viene espressa affiancando un aggettivo ad un colore detto “base” ( “blu elettrico” o “verde scuro”), in altri casi questo colore base affianca un oggetto a cui fare rifermento (“rosso sangue” o “giallo limone”), a volte non si cita alcun colore e si usa direttamente un concetto a cui pensare per capire di che colore si stia parlando (“color senape” o “color carne”). Queste definizioni vengono dette “polilessemiche”, perché a ogni concetto singolo vengono associate più parole (lessemi). La parte interessante per un linguista sta proprio nelle parole che in ogni lingua definiscono i colori base. Ossia le definizioni dette “monolessemiche”, perché costituite da una sola parola (ad esempio “rosso”, “verde”, “giallo” ecc.). Il numero di queste categorie monolessemiche di colori basilari, contro intuitivamente, non è comune a tutte le lingue.

Lingue come l’italiano e l’inglese ne hanno 11, il cinese mandarino ne ha 6. La cosa interessante è che alcune lingue, come Il wobé (una lingua indigena della Costa d’Avorio), ne hanno solamente 3, altre 2 o addirittura nessuno!

Ma andiamo per gradi.

Il caso del wobé.

I nomi dei colori

In wobé, queste tre categorie si possono tradurre approssimativamente come “scuro” (in cui confluiscono blu, marrone, nero e viola) , “chiaro” (che contiene giallo, bianco, verde, grigio, rosa e arancione) e “rosso”.

In wobé dei jeans, i mirtilli e un pallone da basket sono dello stesso colore: “kpe”. Mentre il cielo di giorno, un limone e la farina sono tutti dello stesso colore “pluu”. Questa tripartizione “chiaro-scuro-rosso” è abbastanza comune fra varie lingue native dell’Africa Sub-sahariana e meridionale.

E tutti gli altri colori? Che fine fanno?

Prendiamo ad esempio il blu.

Per noi europei il blu è un colore molto definito e popolare! Sondaggi svolti dall’università del Maryland suggeriscono che sia scelto come colore preferito in media dal 35% delle persone! Di certo merita la sua parola specifica e la sua categoria base!

Non se la domanda viene posta a una persona che parla come lingua madre la lingua Yoruba. Questa lingua, parlata prevalentemente in Nigeria ma anche nella Repubblica Dominicana e in Brasile, definisce il blu come “awò ojù òrun”, letteralmente “il colore del cielo” e non ha una versione monolessemica per nominare il colore.

Facendo un passo indietro nel tempo, si nota che in lingue europee antiche come il latino e il greco antico, ma anche per il sanscrito o per le lingue Maya, non esiste un termine unico e distinto per il blu. Questo colore spesso si mischia con il verde, il nero o anche qui viene genericamente definito come “color cielo” (in latino “caeruleus”). Il fatto che né latino né greco avessero una parola specifica per il colore blu ha determinato il fatto che le lingue neolatine europee (fra cui italiano, francese e spagnolo) “rubassero” il termine dal germanico antico, che invece distingueva il blu (“blau”) dal verde (“groni”).

L’origine dei colori.

A volte l’origine delle parole che descrivono i colori può essere lontana nel tempo. Ad esempio la parola inglese “white” deriva da una radice proto-indoeuropea (*kweyte) che era collegata al concetto di “brillare”. La stessa radice proto-indoeuropea sì è sviluppata nelle lingue slave mantenendo proprio questo “luccicante” significato (ad esempio, in lituano šviesti significa “brillare”). A volte l’origine può essere più utilitaristica ma meno chiara. Nel caso del porpora, l’origine è abbastanza incerta. Siamo sicuri che i greci chiamassero il mollusco da cui si deriva il famoso pigmento “porphùra”, tuttavia l’origine di questa denominazione è leggermente meno chiara. Non è chiaro se questo nome derivasse dall’interpretazione metaforica dello splendore del colore prodotto (quindi dalla radice greca “phyro”, fuoco) oppure da un più banale riferimento all’ondeggiare di questi molluschi sul fondo marino (sempre dal greco “porpyro”, ondeggiare).

In ogni caso. Ogni linguaggio sceglie i propri colori base in maniera casuale senza nessuna ragione specifica?

Assolutamente no.

Nei primi anni del 1900 un antropologo di nome W.H.R. Rivers propose la sua teoria a riguardo. A quei tempi un razzismo sistematico e radicato ancora inquinava la scienza e Rivers concluse che “in un linguaggio, il numero di definizioni monolessemiche relative ai colori definisce in maniera univoca lo sviluppo intellettuale e culturale della popolazione che lo parla”.

Ovviamente, oltre che essere estremamente razzista ed eurocentrica, questa visione è assolutamente sbagliata. Nel suo studio Rivers confonde la definizione monolessemiche con la percezione stessa del colore. Questa affermazione non potrebbe essere più sbagliata, e ce lo può far capire uno dei popoli indigeni della Papua Nuova Guinea.

Nella lingua Yele (yeli dnye), una lingua parlata nell’arcipelago delle Luisiadi, non esistono definizioni base per i colori. Tuttavia, la lingua è ricca di metafore e analogie attraverso le quali i nativi riescono a trasmettere in maniera molto facile di quale colore stanno parlando.

Ma quindi perché alcune lingue hanno “più” colori di altre?

Alla fine degli anni settanta Brent Berlin (antropologo) e Paul Kay (linguista) hanno pubblicato uno studio chiamato “The World Color Survey” (letteralmente “il sondaggio mondiale sui colori”), condotto su più di 2500 persone, con un insieme di più di 100 lingue differenti.

Il risultato di questo studio è che le lingue sviluppano definizioni monolessemiche base per i colori con un ordine specifico. I primi ad apparire sono bianco e nero, poi rosso, alternativamente giallo o verde, poi blu e alla fine tutto il resto (arancione, viola, marrone e grigio).

Ma perché? Perché la parola che definisce il rosso dovrebbe apparire prima della parola che definisce il blu?

Molti antropologi e linguisti pensano che la gerarchia dipenda dall’abbondanza naturale dei colori stessi, il rosso è nel sangue e nel fuoco, il verde è nelle piante, il blu al contrario è abbastanza raro in natura, quindi non è necessario avere una parola specifica.

Ma la chiave nello sviluppo di una lingua sta sempre in un fattore: l’interazione.

L’interazione fra diverse culture crea necessità di trovare compromessi e di fare chiarezza in caso di ambiguità. Ed è così che lingue di popolazioni geograficamente isolate manifestano una gamma più ristretta di queste categorie, semplicemente non sono necessarie.

Voglio concludere questo articolo con una bellissima citazione proprio di uno dei due scienziati che hanno svolto il “World Color Survey”, Paul Kay.

“Nonostante le grandi differenze fra varie culture e società, c’è qualcosa di universale riguardo al modo in cui gli esseri umani cercano di dare un senso al mondo che li circonda”.

The color survey
Colors in Yoruba
The world color survey
L’invenzione del blu
White Etymology
Etimo Porpora
Naming colours
Fonte immagini
Etimologie interessanti

Luca Ricciardi

Laurea in chimica-fisica dei sistemi biologici, ottenuta all'università "La Sapienza" di Roma, PhD in Chimica Organica ottenuto all'università di Twente (Paesi Bassi), attualmente parte dell'Editorial Office di Frontiers in Nanotechnology e Frontiers in Sensors, a Bologna. Mi identifico come napoletano (anche se di fatto a Napoli ci sono solo nato). Un ricettacolo di minoranze (queer, vegano, buddista…) con una grande passione per la divulgazione.

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