Coronavirus: come le mutazioni lo stanno cambiando
Sono passati ormai più di 5 mesi dal primo caso accertato di infezione da Sars-Cov-2. Il “nuovo” coronavirus ha infettato più di 3,5 milioni di persone in tutto il mondo, causando il decesso di circa 250.000.
Insomma, bisogna ammettere che purtroppo il virus ne ha fatta di strada. Vi abbiamo già parlato della storia dei coronavirus e di come questi abbiano rotto le scatole al genere umano anche in passato.
Oggi cerchiamo di capire meglio come si sta evolvendo l’attuale pandemia. Sono molti gli studi genetici sui cambiamenti del Sars-Cov-2 nel tempo.
Purtroppo, sono altrettanti i titoli in prima pagina pieni di allarmismi sulla formazione di nuovi ceppi mutati potenzialmente letali. Il concetto di mutazione si ritrova spesso associato a situazioni deleterie, come per esempio nei tumori, ma durante una pandemia mondiale cerchiamo di non giungere a conclusioni affrettate.
È giusto chiedersi se il virus sta cambiando nel tempo, ma cerchiamo di non dare significati diversi a questi cambiamenti.
Perchè i virus mutano?
Innanzitutto chiediamoci: perché il virus dovrebbe cambiare? E come lo fa?
I virus non sono macchine perfette anzi, sono relativamente semplici. Una molecola di acido nucleico (DNA o RNA) avvolta da uno strato di proteine e lipidi. Fine.
Sti stronzi non sono nemmeno in grado di vivere se non infettano un organismo. Eppure proprio sti stronzi sono tra le entità biologiche con il più alto tasso di mutazione.
Soprattutto quelli a RNA tra i quali ritroviamo proprio i coronavirus. Come detto, parlare di mutazioni nei virus porta spesso a facili allarmismi. Data l’esperienza dell’essere umano con malattie genetiche e tumori, è più facile immaginare mutazioni che in qualche modo possano rendere il virus più letale.
Ma questo non è detto. Soprattutto perché parliamo di mutazioni che avvengono nel genoma del virus. E in generale al virus non conviene affatto uccidere il suo organismo ospite (ovvero noi, mortacci sua) visto che ci lascerebbe le penne anche lui. Ma andiamo per gradi.
Bisogna prima chiarire che nella biologia le mutazioni avvengono naturalmente, così come quelle che hanno permesso al Sars-Cov-2 di fare il salto di specie e questo è stato sicuramente un male.
La mutazione è un evento spontaneo, quasi sempre dovuto a degli errori prodotti naturalmente durante i processi di replicazione del genoma (DNA o RNA) di uno specifico organismo.
Quando questo organismo si prepara a moltiplicarsi per dare vita a nuova progenie, duplica il suo genoma. Ne deriva che le probabilità che avvenga un errore, e dunque una mutazione, sono dipendenti dal numero di volte che questo si duplica. In sostanza più volte duplico il genoma e più errori rischio di fare.
L’aspetto caratterizzante dei virus è che figliano peggio dei conigli in calore, generando un numero spropositato di nuove particelle virali ogni volta che riescono ad infettare una cellula. E questo aumenta di molto la probabilità di accumulare nuove mutazioni.
Per i virus ad RNA, in particolare, la probabilità di mutare è ancora più alta rispetto a quelli con genoma a DNA. L’RNA, infatti, è una molecola molto più instabile e reattiva del DNA.
Per questo motivo quando il virus, una volta infettato l’organismo ospite, genera nuove copie di sé stesso, è molto facile che incappi in più errori durante la sua replicazione. Anche solo durante una singola infezione in uno stesso organismo possono generarsi virus con genoma mutato.
Come sta mutando l’attuale Coronavirus?
Questo è quello che è successo, sta succedendo e continuerà a succedere con il Sars-Cov-2, il virus responsabile dell’attuale pandemia.
Ad ogni replicazione, il virus ha una potenziale probabilità di generare nuove mutazioni, che nel corso del tempo possono essere significativamente selezionate dall’ambiente e dal contesto in cui esse si trovano, generando così nuovi ceppi di Sars-Cov-2. Il che non è sicuramente un bene.
Diventa difficile star dietro ad ogni nuova mutazione ed ogni ceppo virale per capirne le conseguenze. Costruire una cura diventa estremamente complesso nel momento in cui il virus tende a cambiare spesso le carte in gioco.
Ma queste mutazioni possono portare ad una letalità maggiore del virus?
In uno studio italiano condotto su 200 genomi virali sono state trovate 8 varianti genetiche con una certa frequenza tra Cina, Europa e Nord America. Queste mutazioni ricadono nella sequenza che codifica per la “RNA polimerasi RNA dipendente”, la proteina virale che dirige la replicazione del genoma del virus. Queste mutazioni sono distribuite in maniera differente in Cina, Europa e America Settentrionale.
Quindi con queste 8 mutazioni il virus è più pericoloso?
Queste 8 varianti ci dicono che il virus può replicarsi in maniera leggermente diversa nei diversi paesi.
Questo non ci basta per dire se queste mutazioni conferiscono al virus una maggiore letalità. La letalità infatti non è definita sulla base di questo singolo parametro.
Ma allora a cosa ci serve sapere di queste mutazioni?
A capire su quali cure puntare di più.
Alcuni farmaci antivirali hanno come target molecolare le polimerasi che i virus utilizzano per replicarsi. Sapere che il Sars-Cov-2 ha una certa variabilità nella sequenza che codifica per questa proteina, ci fa capire che una terapia contro la polimerasi del virus potrebbe non avere molto successo.
Questo perché la proteina potrebbe cambiare nel tempo, riuscendo così a sfuggire all’attacco del farmaco.
Un secondo studio ha confermato la frequenza di questi 8 sottotipi di virus in 1100 genomi di Sars-Cov-2 isolati tra Cina, Europa e Nord America. I ricercatori hanno rilevato che tre di questi otto sottotipi rappresentano ben il 70% dei casi di COVID-19.
Inoltre, dallo studio emerge che questi sottotipi, pur avendo una localizzazione diversa tra loro, sono geneticamente molto simili al virus originario cinese. Questo fa pensare che il virus non sembra evolvere verso una forma più aggressiva.
Stesso virus, stessa letalità (?)
Un altro studio pubblicato su PNAS ha combinato i dati dei diversi ceppi di virus provenienti da tutto il mondo con alcuni dati computazionali predittivi, eseguiti sull’andamento delle mutazioni che il virus si sta portando dietro in questi mesi.
Da questo studio emergono tre diversi super-ceppi di Sars-Cov-2, rinominati “A”, “B” e “C” (gli scienziati non hanno molta fantasia).
Il tipo “A” è quello emerso inizialmente a Wuhan, originariamente più diffuso nelle prime settimane. Da questo sembrerebbe essere derivato poi il sottotipo “B”, prevalente nei pazienti di tutta l’Asia orientale.
Quella europea è invece la variante “C”, presente nei primi pazienti in Francia, Italia, Svezia e Inghilterra. La cosa interessante è che la variante “C” sembra essere del tutto assente nella popolazione cinese dello studio, ma è stata trovata a Singapore, Hong Kong e Corea del Sud.
Cosa vuol dire questo?
Lo studio dimostra ancora come, nonostante la variabilità genomica, il virus sia in un certo senso strettamente legato al suo predecessore cinese.
Queste mutazioni sono sicuramente rilevanti dal punto di vista epidemiologico, ma non evidenziano una evoluzione più pericolosa del virus. Oltretutto è utile studiare questo tipo di mutazioni per comprendere come il virus può costruirsi una via di fuga da una popolazione all’altra. Inoltre, possiamo capire se un futuro vaccino potrà essere più efficace in un paese piuttosto che in un altro.
Conclusioni: cosa ci aspettiamo in futuro?
Sì ok, ma in futuro il virus potrebbe mutare e diventare più stronzo?
Ancora, mutazione non vuol dire per forza devastazione. So che vi garberebbe come scenario apocalittico, ma NO.
Perché?
Perché il virus odia uccidere il suo ospite visto che è solo grazie a questo se può campare.
Il virus odia pure scatenare una reazione immunitaria nell’ospite, talmente esagerata che porterebbe facilmente alla morte di entrambi, proprio come sta ancora facendo. L’adattamento all’uomo è la fine che si prospetta per questo virus, così come è stato per il meno contagioso cugino della Sars.
In conclusione, il virus per sopravvivere può contare soprattutto su due cose: la trasmissibilità e la capacità di infettare senza uccidere immediatamente l’ospite.
Il lockdown mondiale ha puntato a ridurre di molto la trasmissibilità. Si spera che questo lasci al virus come unica via di sopravvivenza quella di evolversi verso forme meno letali, anche se questo richiederà tempi molto lunghi.
Per cui, come riporta anche un articolo su Nature, sulla base dei dati genetici raccolti ad oggi, è molto più probabile che con il tempo il virus “capisca” che dovrà smettere di fare il bullo e fare meno danni se vuole continuare a diffondersi nella popolazione.
Forse è ancora troppo presto per parlare con certezza di declino della diffusione o della diminuzione della letalità, ovviamente allo stesso tempo non si può escludere l’ipotesi più pessimista.
Ad oggi però i dati genetici ci danno la speranza di poter mettere da parte il pessimismo e tentare di sfruttare questi indizi per agire per tempo contro le prossime mosse del virus.
Mi sono laureato in Biotecnologie a Parma, poi ho conseguito la Laurea Magistrale in Biotecnologie Mediche a “La Sapienza” Università di Roma. Attualmente mi occupo di ricerca nell’ambito della genetica medica. Partecipo al progetto Missione Scienza dal 2017, spacciandomi per finto divulgatore della scienza e contribuendo nell’aspetto grafico e visivo.
Bell articolo! Secondo me avresti potuto chiudere spiegando se e come un eventuale vaccino copra anche le possibili mutazioni del virus. Grazie!
Ciao Alessandro! Grazie per il tuo feedback 🙂
In questo articolo, anche per motivi di sintesi, abbiamo voluto centrare il discorso sul ruolo delle mutazioni soprattutto dal punto di vista pandemico. Assolutamente interessante è invece l’aspetto applicativo di queste ricerche genetiche che ci possono fornire indicazioni utili sulle terapie future, vaccini inclusi. Provo a risponderti brevemente qui, ma faremo sicuramente un articolo sull’argomento vaccini.
Innanzitutto, come accennato nell’articolo, queste mutazioni ci permettono di capire che tipo di variabilità dover considerare nello sviluppo di un futuro vaccino dal punto di vista geografico. In generale si tende a considerare il vaccino come una cura unica e globale. La verità è che resta comunque una terapia soggetta a una certa variabilità, seppur minima, che dipende molto da come una certa popolazione reagisce al virus e, viceversa, da come il virus cerca di adattarsi in quella popolazione (selezionando determinate mutazioni). E questo vale soprattutto per l’attuale Sars-Cov-2. Per questo i dati genetici ed epidemiologici si integrano perfettamente con gli studi sui vaccini, nella speranza di sviluppare per ogni popolazione il vaccino più idoneo al ceppo più diffuso in quella regione del mondo.
Concludo citandoti un altro studio (ancora in via di pubblicazione) che sta valutando l’importanza di alcune mutazioni trovate nella sequenza del genoma del virus che codifica per la proteina virale “N”. Questa proteina ha il compito di costruire il virus una volta che questo ha infettato la cellula, e di rilasciare i nuovi virioni. In parte, la reazione immunologica dell’ospite che si scatena contro il coronavirus è indirizzata verso la proteina N. Queste mutazioni potrebbero variare la risposta immunologica nell’ospite e, dal momento che un vaccino si basa proprio su questo meccanismo biologico, è importante considerare questi cambiamenti nell’ottica di sviluppo di un nuovo vaccino. (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7184998/pdf/main.pdf)
Gli studi in atto sono tantissimi, faremo sicuramente un articolo sull’argomento, ma spero di aver soddisfatto (almeno in parte) la tua richiesta.
Grazie di nuovo per il commento e continua a seguirci per altri aggiornamenti!
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