Che fine ha fatto il finalismo?!?
Alice: Would you tell me, please, which way I ought to go from here?
The Cheshire Cat: That depends a good deal on where you want to get to.
Alice: I don’t much care where.
The Cheshire Cat: Then it doesn’t much matter which way you go.
Alice: …So long as I get somewhere.
The Cheshire Cat: Oh, you’re sure to do that, if only you walk long enough.
Evoluzione e progresso
Quando ci capita di sentir parlare di evoluzione tendiamo ad associare immediatamente questo concetto a quello di progresso, come se i due fossero in qualche modo sinonimi.
Evolvere, d’altro canto, non significa proprio migliorare, nel senso di: adattarsi sempre meglio a un determinato ambiente?
Purtroppo, no, le cose non stanno così.
Fatemi essere subito chiaro: intendere l’evoluzione come una tendenza al progressivo miglioramento, significa non aver colto proprio l’aspetto più straordinario, e forse, per questo, anche più controintuitivo, della teoria di Darwin.
Cosa che con ogni probabilità rischia di compromettere irrimediabilmente la nostra comprensione del concetto stesso di evoluzione.
Ma come? E allora come la mettiamo con la classica immagine dell’evoluzione dell’uomo, quella che vede un goffo scimmione che si fa via via sempre più eretto fino a raggiungere il meraviglioso stadio finale di Homo sapiens?!?
Ebbene, purtroppo dobbiamo abituarci all’idea che anche quell’immagine è profondamente fuorviante.
Passiamo in rassegna i nomi di alcune delle maggiori personalità che ci fanno compagnia in quello che mi azzardo a definire l’errore più diffuso nella comprensione della teoria dell’evoluzione.
Un po’ di storia
A farci compagnia, in ordine sparso, troviamo eminenti filosofi come A. Comte e H. Spencer. Entrambi fanatici della teoria di Darwin, i quali fondarono le proprie dottrine filosofiche proprio sull’errore che stiamo per analizzare.
Assieme ai ben più famosi Marx ed Engels, soprattutto il primo, euforico del fatto che uno scienziato indipendente avesse confermato la sua visione del mondo, cioè il materialismo storico, conferendole una solida base naturalistica.
Attenzione: non stiamo parlando affatto di furiosi critici della teoria di Darwin, ma – proprio all’opposto – di suoi genuini sostenitori… e non è finita qui!
Come fare a non menzionare lo stesso T. Huxley, un così appassionato difensore della teoria del compatriota da guadagnarsi il curioso appellativo di mastino di Darwin?
Ebbene, anche lui dà l’impressione di averne abbastanza frainteso la teoria in questo suo aspetto cruciale.
Infine, per quanto possa risultare incredibile, lo stesso Darwin all’interno delle proprie opere sembra suggerire che la natura vivente mostrerebbe costantemente questa tendenza al raggiungimento di forme più adatte, quindi migliori, di quelle passate.
L’animale che si è fatto da sé
Per quasi tutti questi intellettuali borghesi, della seconda metà del 1800, laddove una certa tradizione religiosa aveva preteso che l’uomo, quello bianco, ovviamente, fosse il culmine del creato, la teoria di Darwin aveva, invece, mostrato che se l’uomo si trovava sul più alto gradino del regno animale, non era grazie al volere di un qualche misterioso Dio, ma, piuttosto, a causa del funzionamento della natura stessa.
Detto altrimenti, era stata unicamente la natura che, attraverso i suoi meccanismi di mutazione-e-selezione, aveva permesso ai più adatti di procreare con maggiore facilità, finendo così inevitabilmente col migliorare le specie viventi. Sempre nel senso di renderle più adatte ad un certo ambiente.
Ma quindi stiamo davvero sostenendo che gira e rigira lo stesso Charles -SempreSiaLodato- Darwin non aveva colto l’aspetto più sottile della teoria che porta il suo nome?!?
Quando l’autorità fa danni
La risposta più sicura a quest’ultima domanda è un bel forse, dato che il nostro naturalista fu presto costretto a rivedere parte della sua teoria a causa delle critiche (tanto autorevoli quanto sbagliate) formulate da Lord -MortacciSua- Kelvin.
William Thomson, primo barone di Kelvin, fisico egregio e fervente uomo di fede, stimò infatti l’età della terra nell’ordine di pochi milioni di anni: troppo pochi per le futili fantasie di Darwin.
Così, per provare a far tornare i conti, quest’ultimo fu costretto a ridurre l’incidenza della casualità nelle mutazioni e a riabilitare (controvoglia?!?) concetti lamarckiani quali l’uso come fattore di trasformazione degli organi e l’ereditarietà dei caratteri acquisiti.
Purtroppo, non ci è dato sapere come sarebbe andata la storia della teoria dell’evoluzione se Lord Kelvin non si fosse messo a pontificare al di fuori della sua area di competenza (vittima dell’ormai nota “Sindrome di Sheldon Cooper“, che affligge molti fisici e virologi in generale), ma nessuno ci vieta di immaginare che la vicenda avrebbe preso strade diverse.
Ad ogni modo, dopo questa carrellata di aneddoti storici è tempo di tornare al nocciolo della questione.
Sfuggire alle trappole del latino: l’exaptation
Innanzi tutto possiamo provare a pensare che forse è proprio la parola “adattamento” a suggerirci subdolamente l’idea di un movimento diretto verso una destinazione specifica, una meta.
Forse, è proprio la radice latina che ci induce, volenti o nolenti, a interpretare erroneamente il concetto cui essa si riferisce. La parola “adattamento”, infatti, inizia con la particella “ad” che in latino si usava, tra le altre cose, per introdurre il cosiddetto complemento di moto a luogo, cioè di un movimento diretto verso qualcosa.
Se così stanno le cose non suonerà strano che, proprio nel tentativo di estirpare per sempre dalla teoria dell’evoluzione questo fraintendimento generalizzato, i due biologi Stephen Jay Gould e Elisabeth Vrba abbiano proposto in un loro celebre articolo del 1982 di sostituire la parola “adaptation” con la parola “exaptation”, con l’intenzione di mettere in chiaro che l’evoluzione non è mai un movimento diretto verso-qualcosa ma, piuttosto, un movimento da-qualcosa.
I due grandi biologi, infatti, ci ricordano che la particella “ex” era utilizzata dai latini per introdurre un certo complemento di moto da luogo, ovvero quello di “uscita da”, che non suggerisce affatto l’intenzione di puntare verso una meta da raggiungere, una destinazione finale.
Esso si limita ad indicare il luogo di provenienza, il punto d’origine del movimento in questione, lasciando giustamente aperta la strada del futuro.
Ed è proprio questo fondamentale cambio di prospettiva che ci riporta al titolo del presente articolo, ovvero alla tragica fine del finalismo (pun intended).
La fine del finalismo
Il finalismo, per chi non lo sapesse, è la tendenza a pensare che ogni oggetto che ha una storia debba per forze di cose avere anche uno scopo, un motivo per cui esso è così com’è e non altrimenti.
Detto in altre parole, esso è ciò che ci induce a credere che ogni cosa che sembra essere il risultato di un progetto non possa non avere uno scopo ben preciso.
Perché chiamarlo “progetto”, altrimenti? (qualcuno ha detto “Intelligent Design”?!?).
Ebbene, se questo principio euristico vale quasi sicuramente per un orologio da polso o un paio di occhiali, bisogna stare molto attenti ad applicarlo a un qualsiasi oggetto naturale solo perché esso vanta una lunga storia.
La storia (con buona pace di Hegel) non tende da nessuna parte e non punta in nessuna direzione: i processi storici non sono altro che catene più o meno lunghe di eventi più o meno contingenti che si accumulano confusamente gli uni sugli altri dando vita a – letteralmente – tutte le cose che esistono.
Insomma, piuttosto che pensare all’evoluzione come ad un meccanismo che realizza progetti perfettamente adattati, dovremmo iniziare a raffigurarcela come un artista abbastanza incostante che mette insieme quello che ha senza avere in testa nulla di preciso, di definito, ma solo una grande passione per il bricolage.
Un artista talentuoso, quindi? Difficile a dirsi…
Sta di fatto che con miliardi di anni a disposizione anche un bricoleur totalmente incapace potrebbe riuscire a produrre, di tanto in tanto, risultati soddisfacenti (es. i dinosauri) che potrebbero addirittura rimanere esposti nella sua galleria d’arte per tempo indefinito, a meno che condizioni esterne (es. un meteorite) non distruggano tutto il suo lavoro, creando così le condizioni affinché il nostro metaforico artista si rimetta all’opera con ciò che gli è rimasto.
Conclusione
Alla luce di tutto questo, perché mai avevo annunciato che questa perdita di scopi e destinazioni fosse in realtà una fortuna?
Perché, per come la vedo io, una volta spogliato l’universo da tutte le sue cause finali, possiamo smettere di sprecare tempo ed energie nel cercare a tutti i costi la morale della nostra improbabilissima favola evolutiva ed essere finalmente liberi di utilizzare quelle stesse energie per ragionare tutti insieme sulle cose che contano davvero, qui ed ora.
ps: parlando di cose importanti qui e ora, avete già messo www.missionescienza.it come homepage del vostro browser, vero?!?
Riferimenti bibliografici:
Articolo originale di Gould e Vrba (1982)
Pagina di wiki sull’exaptation
Dopo una laurea in filosofia, durante la quale scopre che la sua vera passione è la fisica, si laurea anche in fisica e capisce che in realtà la sua vocazione è la biologia evoluzionistica. Decide quindi di specializzarsi in filosofia della scienza e di dedicare le sue energie alla divulgazione, provando a raccontare agli altri le cose che lo appassionano.
========================================
Filosofo per gli scienziati e scienziato per i filosofi.
Vegetariano e allergico alla frutta.
Ottimista nonostante tutto.
========================================
Siete il mio nuovo blog preferito!
Troppo buona! <3
ps: conosci già la nostra pagina facebook? https://www.facebook.com/MissioneScienza/
considera che non tutti i post di facebook vengono riportati qui sul sito. 😉
Pingback: L'evoluzione del veleno nelle prede Missione Scienza