Apocalisse zombie – non così spaventosa
Gli zombie possono far paura (e anche un po’ schifo).
Anche se tutti sappiamo (e speriamo) che questi terribili esseri restino solo un prodotto della fantasia, c’è davvero tanto da imparare esplorando la loro “para-scientificità”.
Nella cultura sia cinematografica che letteraria, questi esseri sono alla continua ricerca di carne umana o animale. Generalmente, non hanno battito cardiaco, respirazione o riflessi volontari, ma possono mantenere inalterate alcune delle facoltà come deambulazione, vista e/o udito e olfatto. Molto ci sarebbe da discutere su come un corpo privo di vita possa ritornare a camminare (o zoppicare) fra i vivi, in “letteratura” esiste una grande quantità di variazioni sul tema, ma è necessario ai fini dell’articolo chiarire un punto.
Si parla di effettivi esseri umani deceduti (anche se alla fine esploreremo un altro paio di possibilità).
Se originariamente i movimenti di questi esseri erano lenti e goffi (basti pensare agli zombie di Romero), con il passare degli anni le nuove generazioni di morti viventi hanno guadagnato mobilità, forza e agilità. Uno zombie in grado di rincorrere, afferrare e fare a brandelli la sua vittima è di sicuro più d’effetto sul grande e piccolo schermo.
Se nella fantasia questi esseri terrorizzano l’umanità e popolano scenari apocalittici, c’è da chiedersi, a prescindere dalla forza che li abbia rianimati, cosa succederebbe nella realtà?
Può davvero un morto vivente camminare? E se sì, comportano davvero un pericolo così insormontabile?
Sembra una domanda paradossale
Uno zombie è letteralmente un morto che cammina in cerca di carne umana… Si parla dell’ingrediente fondamentale di una buona percentuale di film horror degli ultimi decenni.
C’è ovviamente un grosso “ma”.
Bisogna ricordarsi che qualsiasi siano le forze che rimettono in piedi i morti, i cadaveri sono pur sempre cadaveri, cioè esseri viventi deceduti e, in quanto tali, sono tutti inevitabilmente vittima di specifici processi biologici.
Parliamo dei processi cadaverici
Nel periodo immediatamente successivo al decesso, ossia la cessazione di tutte le funzioni biologiche che sostengono l’organismo vivente, si mette in moto tutta una serie di processi detti “processi cadaverici”. Alcuni di questi fenomeni vengono detti “fenomeni abiotici”, ossia che sopraggiungono immediatamente dopo il decesso o consecutivamente dopo. Questa classe comprende la cessazione della respirazione e del battito cardiaco, la perdita di coscienza, la disidratazione il raffreddamento e la decolorazione dei tessuti. Altri sono detti “fenomeni trasformativi”, ossia processi distruttivi per il cadavere o che comunque ne alterano irreversibilmente la composizione.
Il primo su cui voglio soffermarmi è il rigor mortis.
Duro come l’acciaio
La locuzione latina rigor mortis (letteralmente: “rigidità della morte”) identifica la rigidità che sopraggiunge eventualmente in qualsiasi cadavere animale nei primi giorni dopo il decesso.
Il processo di irrigidimento inizia in genere circa tre ore dopo la morte ed è causato dalla modifica strutturale delle proteine che compongono i muscoli, cioè actina e miosina. Queste proteine formano dei filamenti detti “miofibrille” che si dispongono ordinatamente all’interno della cellula muscolare e ne permettono la contrazione e il rilassamento.
La contrazione muscolare è causata specificamente dalla formazione di legami a ponte fra actina e miosina mediati da ioni calcio (Ca2+) e ADP (adenina difosfato). Questi legami a ponte sono reversibili, al fine che la fibra muscolare possa rilassarsi, e vengono scissi consumando molecole di ATP (adenina trifosfato), che è prodotta dal corpo tramite il processo di respirazione cellulare.
A causa della cessazione delle funzioni vitali però, il corpo non produce più nuova ATP, quindi dopo un certo lasso di tempo il legame fra le fibre di actina e miosina non è più reversibile. Non solo, il deterioramento cellulare post-mortem dà il via a una vera e propria overdose di ioni calcio, causando ulteriore irrigidimento dei muscoli nelle prime ore dopo il decesso.
È interessante notare che l’irrigidimento coinvolge prima i muscoli piccoli, come quelli della mascella, quindi uno zombie sarebbe totalmente impossibilitato a mordere passate le prime tre ore di non-vita (in quanto non potrebbe né aprire né chiudere la bocca).
La rigidità completa (e quindi la totale immobilità) sopraggiunge in circa 10-12 ore dopo il decesso e si protrae in media per 48-60 ore. La rigidità cadaverica è influenzata dalla temperatura ambientale: ambienti caldi accelerano la comparsa e la scomparsa del rigor mortis, al contrario ambienti freddi hanno l’effetto opposto.
Sebbene sia un fenomeno davvero menomante per il morto vivente, il rigor mortis dopo un po’ scompare. La scomparsa del rigor mortis vuol dire che il nostro zombie potrebbe in teoria riguadagnare capacità di movimento?
Direi di no.
Qui che entra in gioco la decomposizione
Come è stato già accennato, ogni cadavere passa attraverso fenomeni “trasformativi”. Fra questi processi si possono riconoscere tre sotto-fenomeni detti “distruttivi”, generalmente raccolti sotto la definizione di “decomposizione”.
La decomposizione non è altro che il processo di progressivo disfacimento della materia che compone organismi non più viventi e si suddivide in:
- Autolisi, ossia il processo spontaneo di autodistruzione cellulare dovuta alla cessazione delle funzioni biologiche.
- Autodigestione, causata dal fatto che a seguito del decesso i succhi digestivi contenuti nello stomaco e nell’intestino cominciano a consumare le pareti stesse dell’apparato gastrointestinale.
- Putrefazione, la decomposizione dei tessuti a opera di batteri e altri organismi decompositori.
La rapidità ed il modo in cui un corpo umano si decompone sono influenzati da un certo numero di fattori, primi fra tutti temperatura ed umidità. Alte temperature e ambienti umidi accelerano grandemente il processo di decomposizione diminuendo la “vita media” dello zombie in quanto cadavere ambulante.
Qual è il prodotto finale della decomposizione?
Uno scheletro
La scheletrizzazione è l’ultima fase della decomposizione dei cadaveri dei vertebrati, consiste nel disfacimento di tutti i tessuti molli. Il tempo necessario affinché un corpo umano si riduca ad uno scheletro è molto variabile e normalmente richiede fra i dieci e i dodici anni (in un clima temperato, se il cadavere è chiuso in una bara). Se il corpo però è esposto all’aria (come sarebbe nel nostro caso) è stimato che a causa della continua esposizione ad agenti atmosferici e biologici, la scheletrizzazione avverrebbe almeno otto volte più velocemente. Potrebbe volerci anche meno di un anno!
Tralasciando che la decomposizione del tessuto muscolare renderebbe inutile qualsiasi tentativo di movimento del povero cadavere, anche se lo zombie fosse in grado di muoversi sarebbe comunque molto lungi dall’essere pericoloso. Organi sensoriali come occhi, naso e orecchie sono estremamente sensibili e molto esposti, la loro decomposizione comprometterebbe drasticamente le capacità del morto che cammina di percepire il mondo intorno a lui, riducendolo in un goffo burattino che si muove alla cieca senza avere idea di cosa lo circonda.
Decisamente non spaventoso. Ma c’è di più!
In quanto è universalmente noto che distruggere il cervello del cadavere sembra essere l’unico modo di “uccidere” uno zombie, si suppone che la scheletrizzazione (che comporta anche la totale decomposizione del cervello) debba essere necessariamente “fatale” al non-morto!
Insomma, nel caso di un’apocalisse zombie, prediligere posti caldi e umidi.
“E se invece gli zombie fossero vivi?”
All’inizio di questo articolo è stata fatta un’importante precisazione.
“Gli zombie sono a tutti gli effetti cadaveri come gli altri”.
Ma se non fosse così? Se i corpi degli zombi non fossero effettivamente morti?
Ebbene si aprono varie possibilità.
Rimanendo nel mondo delle teorie parascientifiche (ossia, stando alla larga da fenomeni magici e arcani), in tutti i casi la causa di una tale condizione per un essere vivente va necessariamente trovata in un parassita o un agente patogeno che possa essere trasmesso in qualche modo da persona a persona. Che sia fungino, batterico, virale o addirittura alieno (NB, tutte queste opzioni hanno almeno un film/libro a cui fare riferimento), in questo scenario il portatore del patogeno non muore ma perde (parzialmente o totalmente) il controllo del suo sistema nervoso.
Sfortunatamente esistono fenomeni simili anche nella realtà.
Quando si parla di zombie, il primo esempio che viene in mente è quello dei Lyssavirus. Ossia, la rabbia. Questa patologia è un’infiammazione acuta del sistema nervoso che porta svariati sintomi fra cui violenza immotivata e aggressività. Questo virus può infettare l’uomo (e il contagio può avvenire tramite morsi) e se ne registrano fino a 50000 casi ogni anno!
Sfortunatamente, una volta sopraggiunti i sintomi, il paziente ha davvero poche speranze. La prognosi è di massimo dieci giorni, con un tasso di mortalità prossimo al 100% (prevalentemente a causa dei profondi danni al sistema nervoso).
Insomma, anche in tali condizioni, un’apocalisse zombie è abbastanza improbabile.
Formiche zombie. Un pericolo?
Un altro esempio di parassita che genera un effetto paragonabile alla “zombificazione” sono i funghi dei generi Ophiocordyceps e Cordyceps. Questi funghi infettano gli insetti, l’esempio più conosciuto è quello delle formiche.
Le formiche vengono infettate dalle spore che entrano attraverso i canali di respirazione (spiracoli) che, dopo aver raggiunto i tessuti, le spore cominciano a svilupparsi formando il micelio del fungo. Quando il micelio è sufficientemente sviluppato, il comportamento della formica comincia ad alterarsi, l’individuo infetto si allontana dalla colonia (cosa non eccessivamente comune per una formica) e inizia a “ricercare” le condizioni di umidità e temperatura ideali allo sviluppo del fungo stesso. Dopo un tempo variabile da poche ore a molti giorni, il fungo cresce fino a uscire dal corpo del povero insetto malcapitato (generalmente dalla testa) e a liberare le spore.
Ma come fa un fungo a controllare un organismo complesso come una formica in maniera così precisa? Prevalentemente attraverso un cocktail di sostanze psicotrope e una (probabile) struttura complessa di “legacci” sulle fibre muscolari che gli danno parziale controllo sui movimenti dell’ospite.
Potrebbe un fenomeno del genere colpire anche gli umani? Beh no. Direi di no.
Gli umani non sono formiche
Sebbene sia un modo alternativo e pittoresco di dipingere l’apocalisse zombie in chiave più “moderna” la prospettiva che un fungo (sebbene riesca ad infettare in maniera estremamente efficiente insetti e artropodi) ci renda degli zombie è estremamente improbabile.
Anche ammesso che un fungo “evolva” in maniera totalmente casuale la capacità di influenzare il comportamento umano (cosa che già ha del fantascientifico), il suo sviluppo deve necessariamente cominciare dall’introduzione (probabilmente per via aerea) delle sue spore nel corpo. Se negli insetti il sistema circolatorio e respiratorio sono a diretto contatto con l’atmosfera (in quanto privi di sangue vero e proprio e della capacità di respirare in maniera attiva), nel caso del corpo umano il grado di compartimentazione e protezione è incredibilmente più elevato.
A separarci da un’apocalisse zombie di natura fungina abbiamo dalla nostra parte un’efficientissima barriera polmonare e un sistema immunitario in grado di difenderci in maniera più che efficace.
Insomma, niente zombie fungosi all’orizzonte.
In conclusione
I morti viventi fanno bella figura nei film, nei libri e nei videogiochi.
Nella realtà sarebbero decisamente più goffi, non in grado di sentire e vedere nulla attorno a loro, incapaci di mordere e (soprattutto) con una vera e propria data di scadenza.
Ma forse è meglio così.
Rigor Mortis
Decomposizione
Scheletrizzazione
Rabbia
Funghi Parassiti 1
Funghi Parassiti 2
Definizione di “non morto”
Approfondimento video 1
Perché un’apocalisse zombie fallirebbe (video)
Apparato respiratorio degli insetti
Laurea in chimica-fisica dei sistemi biologici, ottenuta all’università “La Sapienza” di Roma, PhD in Chimica Organica ottenuto all’università di Twente (Paesi Bassi), attualmente parte dell’Editorial Office di Frontiers in Nanotechnology e Frontiers in Sensors, a Bologna. Mi identifico come napoletano (anche se di fatto a Napoli ci sono solo nato). Un ricettacolo di minoranze (queer, vegano, buddista…) con una grande passione per la divulgazione.