Perché i semi usati in agricoltura sono brevettati?
Parlare dell’argomento “agricoltura-semi-brevetti” è sempre un po’ complicato.
La tematica è, tanto per cambiare, complessa e per affrontarla al meglio serve una visione aggiornata del mondo dell’agricoltura moderna.
In questo articolo cercheremo di darvi, nella maniera più sintetica e chiara possibile, un’infarinatura del contesto per poi addentrarci nel merito della domanda.
Per questioni di spazio non potremo scendere nel dettaglio di molti argomenti, alcuni dei quali molto interessanti, ma potremo sempre farlo in futuro. Stay tuned!
Cominciamo!
Elementi pratici di agricoltura di base
Molte persone che, per formazione o per lavoro, giustamente, non hanno avuto mai modo di approcciarsi alla realtà agraria, ne hanno un’idea totalmente stravolta.
Altri, invece, usano la propria esperienza con l’orticello domestico come metro di paragone, dimenticando che l’agricoltura intensiva risponde a logiche e metodi completamente diversi.
Da decenni è obsoleto e riduttivo parlare di fattorie e contadinз, oggi si parla di imprenditorз agricoli che gestiscono aziende agricole.
Quando un*agricoltorǝ ha intenzione di realizzare un campo di un qualsivoglia ortaggio/cereale, affronta delle spese che poi, si spera, recupererà nel momento della raccolta e vendita del prodotto.
Queste spese consistono nei costi di preparazione del terreno, nei costi delle piantine o del seme, nei costi di mantenimento (irrigazione, fertirrigazione, trattamenti fitosanitari, ecc.) e di manodopera (zappatura, raccolta, varie ed eventuali).
Nell’agricoltura moderna, tranne rare eccezioni, non ci si riproduce il seme autonomamente.
Perché non produrre in autonomia il seme?
Per due ragioni:
- il materiale che produrrebbe in proprio non sarebbe mai competitivo come quello venduto dalle aziende sementiere.
- Per molti ortaggi non conviene seminarne il seme, ma trapiantare direttamente delle piantine già avviate. Questo perché, come buona parte degli esseri viventi, una piantina appena “nata” (germogliata) è estremamente delicata.
Un brusco calo della temperatura, una forte pioggia, condizioni del terreno non ottimali, possono stressare e spesso uccidere la piantina.
Immaginate un campo, o peggio, una serra, dove vengono investiti centinaia o migliaia di euro per l’impianto di irrigazione e per la pacciamatura e poi il 20% delle piantine o non nasce o muore.
Ci sarebbe uno spreco di spazio e di materiali economicamente insostenibile.
E se si tentasse di ripiantare del nuovo seme si perderebbe l’uniformità di crescita e maturazione delle piante, creando complicazioni in fase di raccolta.
Per quasi tutti gli ortaggi, specialmente le colture ad alto reddito (come pomodori, peperoni, melanzane, zucchine, cetrioli, meloni), si preferisce acquistare delle piantine pronte per il trapianto.
Esse vengono acquistate in appositi vivai, spesso diversi da quelli che vendono piante ornamentali, che hanno strutture a temperatura e umidità controllata per favorire la perfetta germinazione dei semi.
Ma questi semi, da dove provengono?
Le aziende sementiere
Nell’immaginario comune, se il banco dell’ortofrutta è il punto finale della filiera agraria, il punto iniziale è chi coltiva gli ortaggi.
In realtà, tale filiera è ben più complessa e articolata, e vi sorprenderà sapere che l’agricoltorǝ si trova solo a metà di essa.
Come abbiamo detto, spesso le agricoltorз acquistano le piantine da dei vivai.
I vivai acquistano i semi dalle aziende sementiere. Ogni azienda sementiera ha un proprio catalogo dove, per ogni ortaggio, ci sono varietà diverse che possono differire per forme, dimensioni, colori, precocità, resistenza a malattie, resistenza a stress abiotici (freddo, caldo, siccità), stagione di trapianto, ecc.
Quando andiamo al supermercato a comprare una melanzana, di solito non abbiamo idea di che varietà sia.
Una melanzana è una melanzana.
Ma un breeder esperto saprebbe riconoscere varietà e azienda sementiera dell’ortaggio in questione.
Chi lavora in un’azienda sementiera?
Il breeder è una delle figure altamente specializzate che opera nel micromondo delle aziende sementiere.
Il breeder è il responsabile del programma di ricerca e sviluppo varietale di uno o più ortaggi (crops, per dirla all’inglese). Selezionando linee diverse, dette linee parentali, fa delle prove di incrocio per cercare di far convergere le loro caratteristiche positive in una nuova varietà appetibile per il mercato.
Lo sviluppo di una nuova varietà richiede, a seconda delle specie, anche tre, quattro, dieci anni. E infatti questo tipo di programmi possono costare centinaia di migliaia di euro l’anno.
Una volta che la varietà è stata ottenuta, subentra un responsabile di produzione che, da poche decine di grammi di seme, deve incrementarne la quantità per coprire le richieste del mercato.
Quindi il seme viene incrementato, raccolto, pulito, testato, pillolato o confettato, imbustato, spedito. Ognuno di questi passaggi è seguito da un team diverso, con competenze specifiche, che nel loro insieme formano l’organico di un’azienda sementiera.
Su questo argomento ci sarebbe da parlare per ore, magari in una live! Se vi può interessare fateci sapere, magari scoprite il lavoro dei vostri sogni!
Ma torniamo a noi.
Lo sviluppo delle multinazionali sementiere è relativamente recente. A inizio secolo l’agricoltura era profondamente diversa da quella odierna.
L’agricoltura di una volta
Il mondo all’inizio del ‘900 era nel mezzo di un rapido cambiamento dato dalla rivoluzione industriale. In agricoltura, invece, le cose non erano cambiate molto.
Chi parla di “agricoltori che si riproducono il seme” è in ritardo di circa 100 anni, perché questa era una pratica effettivamente molto comune a quei tempi.
Molte specie, dopo essere state esportate al di fuori del proprio luogo di origine, si sono adattate ai diversi ambienti, sviluppando altrettanti ecotipi (come nel caso dei broccoli!). Un ecotipo è una popolazione di piante strettamente collegate, nelle loro caratteristiche, all’ambiente ecologico in cui vivono.
Facciamo un esempio stupido. Una popolazione di cipolle che cresce a 1000 metri di altezza è verosimilmente un ecotipo differente da una popolazione di cipolle che cresce in Sicilia vicino al mare.
La specie rimane la stessa ma la selezione naturale ha selezionato forme e adattamenti specifici per l’habitat colonizzato.
Quindi sì, di un ortaggio esistevano già varietà diverse, ma queste, più che varietà migliorate, erano per lo più ecotipi.
Un ecotipo è, in genere, molto stabile e può tranquillamente essere riprodotto di generazione in generazione senza che cambi.
Spesso, durante le riproduzioni, erano gli agricoltori stessi che facevano timidi tentativi di selezione, improvvisandosi breeders.
Solidi programmi di ricerca scientifica erano rari e portati avanti per lo più da enti pubblici e università su frumento, mais e riso.
A tale proposito non posso non citare due grandi nomi: l’italiano Nazzareno Strampelli e l’americano Norman Borlaug, per il loro contributo al miglioramento di varietà di frumento che ha fatto da apri pista alla rivoluzione verde di metà ‘900.
Perché le aziende private non erano interessate allo sviluppo varietale?
I diritti di proprietà intellettuale
Facciamo che mentre sto scrivendo questo articolo mi venga in mente un’idea geniale.
Una tastiera con delle ventoline che mi riscaldino le mani.
Se riuscissi a dimostrare l’innovatività di questa invenzione, ossia che non sia mai stata pensata prima, potrei tranquillamente brevettarla. Per farlo dovrei fornire una precisa descrizione dell’invenzione e i dettagli di come realizzarla.
A questo punto potrei produrre la tastiera senza temere che qualcuno mi rubi l’idea.
Oppure potrei permettere ad altre aziende di produrla ma chiedendo in cambio i diritti (le royalties) sull’idea.
I diritti di proprietà intellettuale (in inglese: intellectual property rights o IPRs) sono uno strumento legale progettato per fornire allǝ creatorǝ di un’invenzione un ritorno dal proprio lavoro e il relativo investimento.
Questi diritti sono delineati nell’articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e si applicano a simboli, nomi e immagini utilizzati in commercio, opere letterarie, film, musica, opere artistiche, progetti industriali.
La proprietà intellettuale e i brevetti a inizi ‘900 erano già una realtà ma, presi così come erano, mal si applicavano al caso di varietà vegetali.
Perché?
Come posso dimostrare la novità di una nuova varietà di pomodoro? I pomodori esistevano già prima.
E come posso fornire i dettagli di come realizzare la varietà? La selezione adoperata dai breeder sulle linee parentali è fatta a occhio e si basa sulle abilità di chi la esegue.
Se trovo una pianta su mille in cui una serie di geni si sono incastrati e mi hanno dato un tratto favorevole, non è detto che, partendo dalla stessa linea, il fenomeno si ripeta.
La segregazione dei geni è casuale.
Per queste ragioni il miglioramento genetico vegetale è difficilmente riproducibile.
Inoltre, se la mia fantastica tastiera_scaldamani® si dovesse rompere, un cliente dovrebbe necessariamente comprarne un’altra.
Una pianta, invece, attraverso i semi, si riproduce indefinitamente e questo crea un problema a livello di marketing.
Capite il problema logico?
Se un’azienda dovesse investire centinaia di migliaia di euro per ottenere una varietà nuova che, una volta messa sul mercato, chiunque possa riprodurre ed eventualmente rivendere, è naturale che l’investimento avrebbe poco senso.
Il primo brevetto di una varietà
Questo buco legislativo portò all’esigenza di discutere la tematica. Nell’11.930 EU (1930 d.C.), durante il congresso del Plant Patent Act [eng], si approvò la possibilità di brevettare piante prodotte in modo asessuato, tuberi esclusi.
Le patate non potevano essere brevettate. Le patate sono elfi liberi.
Sapete quale fu la prima pianta a essere brevettata?
Nel ’31 fu rilasciato il primo brevetto vegetale [eng] a Henry Bosenberg per la sua rosa (pdf) [eng] rampicante “sempre in fiore”.
L’inventore riuscì a dimostrarne il carattere “innovativo” e a fornire prove di poterla riprodurre in maniera clonale (riproduzione asessuata).
La riproduzione asessuata, che non avviene tramite semi ma tramite talee o innesti, serviva per garantire la vendita di un prodotto identico a quello brevettato ed era cruciale per l’ottenimento del brevetto.
Un modo di usare una mentalità da produzione industriale al mondo vegetale.
Peccato che per la maggior parte degli ortaggi è impensabile ed economicamente sconveniente usare la riproduzione clonale.
La svolta delle svolte
La questione però era stata sollevata [eng], e ben presto si arrivò negli USA a una nuova forma di protezione, denominata Plant Varieties Protection (PVP), estesa a più casi.
Il punto di svolta si ebbe diversi decenni dopo, in Francia, grazie al desiderio internazionale di raggiungere una certa armonizzazione: fu fondata l’Unione internazionale per la protezione delle nuove varietà vegetali [eng] (UPOV).
Oggi, fanno parte della UPOV ben 72 stati in tutto il mondo, i quali si attengono alle stesse regole in modo da facilitare il commercio e lo scambio di varietà vegetali.
Il regolamento vieta a parti terze di riprodurre, vendere, importare o esportare il seme di una varietà protetta.
La durata dei diritti è di minimo 20 anni dalla data di concessione, a meno che non si parli di colture arboree per le quali il minimo è 25 anni.
Non è vietato l’utilizzo di varietà registrate come base per un nuovo programma di selezione che porti, eventualmente, allo sviluppo di una nuova varietà.
Se quest’ultima è chiaramente distinguibile dalla varietà di partenza, la si potrà registrare nella lista delle varietà protette.
Così come non è vietato riprodurre il seme per un consumo personale. L’importante è che non si faccia profitto sfruttando il lavoro di altri.
L’approvazione di una richiesta di registrazione deve passare tramite delle prove di campo in cui si testa l’effettiva novità, Distinzione, Uniformità e Stabilità (prove DUS) della varietà, attraverso la valutazione di specifici caratteri.
L’utilizzo delle varietà ibride
Fu proprio all’inizio del ‘900 che nei college americani, dagli studi sul mais [eng], ci si rese conto che incrociando due linee, anche molto diverse, si otteneva spesso un ibrido molto uniforme e performante.
Questo fenomeno si chiama eterosi degli ibridi.
L’utilizzo di varietà ibride aprì la strada per le aziende sementiere perché risolveva due grossi problemi:
- Se qualcuno provasse a mandare a seme un ibrido, per poterlo ripiantare l’anno successivo, i caratteri delle due linee parentali segregherebbero e la popolazione risultante sarebbe un minestrone di roba tutta diversa.
- Inoltre, si perderebbe una parte dell’eterosi menzionata prima.
In questo modo, un*agricoltorǝ, deve comprare il seme ogni anno se vuole ottenere l’alta qualità di un ibrido. Altrimenti può usare gli ecotipi disponibili, rischiando però di essere tagliatǝ fuori dal mercato perché l’asticella della qualità media si è ormai spostata più in alto.
Poi, altre aziende sementiere non possono mettere le mani sulle linee parentali originali. Questo, invece, succedeva quando si mette(va) in commercio un ecotipo, visto che queste popolazioni sono stabili nel corso delle generazioni.
Ora, fare ibridi sul mais era semplice.
Il mais è una pianta dicline, ha cioè fiori maschi e fiori femmine separati ma sulla stessa pianta.
Risulta quindi semplice rimuovere i fiori maschi da una linea e usarla come linea “femminile”, per poi incrociarla con una linea “maschile” a cui non sono stati rimossi i fiori maschili.
Per molte altre specie con fiori ermafroditi, che producono cioè polline e ovuli nello stesso fiore, non è così.
Per queste ultime la svolta si è ottenuta negli ultimi decenni con la graduale scoperta di piante maschiosterili.
Queste sono piante che per delle mutazioni casuali non producono polline e possono essere usate come piante femminili.
Conclusione
L’utilizzo di varietà ibride e l’ingresso delle aziende private nel sementiero, con investimenti di milioni di euro in programmi di ricerca, ha portato, nel giro di mezzo secolo, a incrementare fortemente le rese di produzione.
Ecotipi originali, non brevettati, possono essere ancora reperiti più o meno facilmente o presso enti pubblici o presso banche del germoplasma, o in alcuni casi, presso i vivai stessi.
Il loro utilizzo è stato però quasi completamente abbandonato perché la qualità degli ortaggi non è paragonabile a quello delle varietà migliorate odierne.
La legge vieta di moltiplicarsi il seme di una varietà registrata e utilizzarlo per fare profitto. Ma se io volessi farlo per farmi un orto per un consumo personale, non ci sarebbero problemi.
Il tema rimane, per molti, controverso, me ne rendo conto, ma un’azienda sementiera va paragonata a una qualsiasi altra azienda che produce beni.
Il fine ultimo è il profitto.
E come è illegale riprodurre capi di vestiario firmati, lo è altrettanto per varietà “firmate”.
Ho tralasciato molti aspetti cruciali per questioni di spazio, ma se avete domande e curiosità siamo a disposizione per parlarne o possiamo organizzare delle live sull’argomento.
Alla prossima e… mangiate le verdure!
Plant Breeder di mestiere, divulgatore per hobby.
Nato sotto una foglia di carciofo e cresciuto a orecchiette e cime di rape, sono sempre stato interessato alla genetica. Ho studiato biotecnologie agrarie e, dopo un erasmus in Danimarca, ho proseguito con un industrial PhD nella stessa azienda sementiera presso cui stavo scrivendo la tesi. Dal 2019 sono rientrato in Italia e lavoro attivamente come plant breeder, realizzando varietà di ortaggi che molto probabilmente avete mangiato 🙂